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Che l'inse? marzo 2004 - numero 25
Bollettino informativo della Associazione Repubblica di Genova

Perché è necessario che la Liguria possa decidere da sé il suo destino

Franco Bampi

Sinceramente, non finirò mai di stupirmi. Eppure, lo confesso pubblicamente, mi sforzo di essere chiaro, di dare poche cose per scontate, di esemplificare, magari banalizzando. Ma quando l’amico Lorenzo Rixi scrive le cose che ha scritto nel precedente numero di Che l’inse? riguardo al MIL, Movimento Indipendentista Ligure, allora ho la quasi certezza di non essermi spiegato affatto! E la cosa sembra proporre un problema di fondo: ad esempio, con le parole “contenuti fattuali” Rixi ed io intendiamo la stessa cosa? Temo di no. E se così è, allora è difficile addirittura comunicare! Ma io sono tenace, non mi arrendo. Per questo invece di far replicare dal MIL, rispondo io, quasi a titolo personale, come se Rixi, parlando del MIL, si fosse rivolto personalmente a me, coinvolgendomi.

E comincio subito: ma quando mai è stato affermato che la mera istituzione di un governo autonomo faccia approdare la Liguria a una dorata stagione di prosperità? Io penso che la restituzione della sovranità, cui la Liguria ha diritto, sia la restituzione delle responsabilità a una classe dirigente da individuare, che sappia ritrovare l’orgoglio e la passione di far risorgere questa nostra terra negletta e trascurata non solo, si badi, da Roma, ma anche da chi pensa che Milano sia la seconda capitale d’Italia. Nessuno pensa poi che il solo sistema locale genovese sia in grado di dare vita ad una nuova stagione di sviluppo. Questa visione autarchica è davvero antistorica e velleitaria. Il MIL non ha mai detto cose simili. Anzi! Ha proposto, dentro l’Unione europea, la costituzione di una Regione Europea formata dalle quattro province liguri e dalle cinque province limitrofe: Cuneo, Alessandria, Piacenza, Parma, Massa. E un giornalista di Adnkronos ha subito aggiunto di non dimenticare Nizza e le Alpi Marittime di chiara origine ligure!

Veramente ingiusta, e per questo a me incomprensibile, l’affermazione secondo cui il MIL (e quindi anch’io!) varia continuamente i giudizi sul comportamento delle forze politiche a seconda che la loro posizione venga valutata più o meno favorevole all’idea di città-stato. Intanto l’idea di città-stato non alberga nella mia mente, né appare in alcun documento del MIL visto che si parla sempre di Liguria e di gente ligure. Ma, per abbrancare di più la sostanza, occorre ricordare sempre che il MIL ha un unico scopo statutario: restituire alla Liguria (non solo Genova, Lorenzo!) la sua plurisecolare indipendenza. Nessun altro scopo o obiettivo può essere attribuito al MIL. Per fare ciò il MIL si allea con chiunque condivida il suo percorso o parte del suo percorso, perché l’unico interesse del MIL è il raggiungimento del suo fine statutario. Mi si dica: voler raggiungere gli scopi prefissi ed enunciati con chiarezza equivale a variare continuamente il proprio giudizio sugli altri? Sono criticato perché ambisco a raggiungere uno scopo preciso e divulgato con ferma chiarezza?

E qui, nelle argomentazioni, entra in ballo la storia. Lo dico subito: il MIL non ha mai avuto una “repentina accettazione della immigrazione islamica” intanto perché non è suo scopo quello di accettare o meno l’immigrazione. Islamica poi! La religione è totalmente estranea a qualsivoglia azione del MIL! Cosa diversa sono i fatti storici: ma occorre dirli con precisione, citarli con sapienza, non buttarli lì, per far scalpore o sperando di far breccia, usando superate tecniche da regimi autoritari. È un fatto che i Durazzo furono acquistati schiavi a Messina nel 1387 da un mercante genovese, che si riscattarono a Genova nel 1389 e che dettero ben otto Dogi e non so quanti prelati. E non si può appellare come anacronistica la revisione (ma che revisione è dire la verità?) del trattato di Vienna di due secoli fa e, udite, udite, i cui effetti sono ormai diluiti nella storia. Mi chiedo, e chiedo al mio paziente lettore, se fatti avvenuti nel 1204 sono o no “diluiti nella storia”. Autorevolmente e, per chi ci crede, magari ispirato dallo Spirito Santo, nel 2001 il Papa ha chiesto scusa per il Sacco di Costantinopoli avvenuto proprio nel 1204. Nel 1995 la Regina d’Inghilterra si è vestita con gli abiti tradizionali dei Maori per fatti del 1840; nel 2002 il Congresso Usa ha chiesto scusa agli indiani per il massacro di Sand Creek del 1864 cantato stupendamente da De André, e via esemplificando. Persino la Lega, in occasione del rientro dei Savoia, ha ricordato il massacro che ha subito Milano nel 1898 per opera di Bava Beccaris. Nessun parlamentare, però, ha voluto ricordare che nell’aprile del 1849 a essere massacrati furono i genovesi che Vittorio Emanuele II definì, con i morti ancora caldi, “vile e infetta razza di canaglie”. Mi chiedo: solo i fatti che riguardano la Liguria si diluiscono nella storia?

Infine veniamo all’oggi: ma chi ha una concezione minimale della Città? E perché mai sarebbe “relativismo politico e culturale” quello del MIL? Chiedere il riconoscimento dei diritti di un popolo sarebbe “desolatamente sterile”? Sono forse meglio le disamine, le citazioni dotte, i convegni, i confronti dialettici, l’analisi delle dinamiche economiche (fatte quasi sempre a posteriori, quando si sa come va a finire)? Oppure sono auspicabili occupazioni di posti di potere, intrallazzi alle spalle della gente, governicchi che si reggono sul perenne dissenso, litigiosi e, purtroppo, per niente sterili, ma fertilissimi per gli amici degli amici?

Ritorno all’inizio: ma cosa diavolo saranno mai i “contenuti fattuali” di cui il MIL (e quindi anch’io) è privo! Io propongo una Liguria sovrana, perché ne ha diritto, che possa decidere da sé dei suoi destini ossia che possa fare le leggi che meglio ritiene utili e imporre i tributi più consoni per il suo sviluppo. Io penso che occorra coinvolgere i popoli limitrofi per costituire una regione europea florida e fiorente. Io penso che occorra aprirsi la mondo, specializzarsi ed eccellere in una attività che possa competere sul mercato globale; penso a un sistema integrato dei porti liguri e non alla competizione, questa sì sterile!, tra il porto di Genova e quello di Savona. Io penso che Milano abbia bisogno di Genova e non viceversa. Penso che Genova possa puntare ad essere di nuovo capitale, come lo è stata per secoli, e capitale non “Genovacentrica” ma al servizio della Regione Europea sopra citata; quindi non capitale una tantum come lo è oggi nel 2004, ma capitale per sempre, come ne ha diritto. Ma questi sono “contenuti fattuali”? Invito chi dissente ad avere la compiacenza, o la capacità, di spiegarmi, ma con poche chiacchiere e soprattutto risparmiandomi ogni qualsivoglia analisi economica, specie se dotta (non ne sarei all’altezza!) cosa fa lui per impedire che mia figlia, e con lei tanti figli di Liguria, vada a lavorare a Milano.

E chissà se è un “contenuto fattuale” darsi da fare perché il redigendo statuto della Regione Liguria accolga una Premessa Storica che ricorda che la Liguria è stata per oltre settecento anni Nazione Stato sovrana e indipendente e che non ha mai rinunciato a detta indipendenza non solo perché non ha accettato le risoluzioni (illegittime!) del Congresso di Vienna del 1814-15 ma anche perché non ha mai votato un plebiscito di annessione né al Regno di Sardegna né al Regno d’Italia. E in questo contesto, conta qualcosa il fatto che Carlo Azeglio Ciampi abbia dichiarato che il Risorgimento “trovò un momento fondamentale nei plebisciti”, che mai la Liguria votò? Mi domando spesso se i sempre più numerosi Comuni che deliberano con atto formale di sollecitare la Regione Liguria affinché inserisca la citata Premessa Storica nel redigendo Statuto lo facciano per fare un favore a me! In realtà la ragione vera è che rilevano, come leggo in più delibere, “la grandissima valenza politica di tale premessa che, se inserita nel nuovo Statuto della Regione Liguria, aumenterebbe il potere contrattuale politico di tutte le istituzioni nei confronti del Governo italiano”. Ma, mi arrovello ancora: sono “contenuti fattuali” questi qui? E ditemi infine se è importante o no parlare ai giovani e alla genti liguri di valori, dei dieci Valori della Civiltà Ligure, elencati dal MIL e storicamente provati.

Io, forse, farò poco, ma almeno, con l’idea di una Liguria indipendente e responsabile, fornisco una speranza e un grande ideale: cose che oggi sempre di più stiamo perdendo, sommersi da vaniloqui di interessati imbonitori.

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Che l'inse? dicembre 2003 - numero 24
Bollettino informativo della Associazione Repubblica di Genova

Perché è necessario un solido legame tra Genova e Milano

Lorenzo Rixi

Nella recente cena sociale dell'ARGe vi è stata forte divergenza di opinioni fra chi, come il MIL, ritiene che basti l'istituzione di una sorta di governo autonomo della Città per approdare ad una dorata stagione di prosperità e chi, come il sottoscritto, ritiene che ciò sia solo una visione fideistica priva di contenuti fattuali. Quasi bastasse un salto istituzionale magico per annullare cause strutturali e culturali che costituiscono i fatti irriducibili ed ostinati che segnano il nostro presente!

Peraltro il MIL varia continuamente i giudizi sul comportamento delle forze politiche a seconda che la loro posizione venga valutata più o meno favorevole all'idea di città-stato. Ogni espressione interpretata come più favorevole alla causa, anche se relativa a contesti diversissimi, comporta un ribaltamento dei giudizi ed un conseguente allineamento con chi contribuisce ad annichilire ogni elemento di vitalità della Città. Basti al riguardo la repentina accettazione della immigrazione islamica contrabbandata come un fatto ordinario nella antica Repubblica, tesi quantomeno storicamente inesatta, a seguito di presunte aperture dei governi locali di sinistra alla ipotesi di Città-Stato.

Questo relativismo politico e culturale, discendente da una visione di una Genova fuori dal tempo e dallo spazio, è desolatamente sterile e non ha alcuna capacità di incidere sui processi politici della vita cittadina. Infatti non solo non ottiene consenso, ma non può neanche divenire base di un interlocuzione culturale, cosicché il tutto si risolve in una discussione fra amici come la volta scorsa. Data la premessa ritengo risulti chiaro che io rifuggo da qualsiasi visione semplice e salvifica riguardo la mia Città.

E la questione mi si presenta maledettamente intricata; frutto come è di sedimenti culturali che derivano dal passato e che improntano il comportamento dei gruppi dirigenti così come dei semplici cittadini, di elementi strutturali sia di ordine demografico che economico, di legami logistici con il mare e con le aree economicamente forti del nord-ovest, della stessa posizione geografica e conformazione del territorio.

Ho l'impressione che le strategie di adattamento opportunistico che i governi oligarchici di questa Città hanno nel passato adottato, quasi sempre con successo (alleati ora con gli Sforza, ora con il Papa, ora con Giovanni D'Angiò, ora con gli Ottomani , ora con la Spagna, ora con la Francia, etc... seconda delle convenienze e delle lotte interne per il potere delle varie famiglie), siano state possibili per la presenza di una pluralità di forze, di volta in volta fra loro in competizione, nello scacchiere italiano e mediterraneo. Illuminante al riguardo è una relazione inviata a Thaon di Ravel riportata da V. Vitale. I Genovesi si sarebbero sottomessi a qualunque governo pur di esercitare il loro commercio liberamente la popolazione sana desiderava un governo estero forte onde farsi rispettare al estero e che offrisse garanzie personali al interno, che mancavano totalmente, condizioni che vengono meno con il congresso di Vienna e con il successivo Regno d'Italia, ove le oligarchie e le corporazioni genovesi non avendo più spazi di manovra con i capovolgimenti delle alleanze accettano di fatto, né potevano fare altrimenti, uno stato di sottomissione definitivo barattandolo con investimenti pubblici a sostegno dello sviluppo industriale delle infrastrutture di collegamento con oltre Appennino e del potenziamento portuale.

Vorrei ricordare per buona pace degli amici del MIL, i quali rivendicano una anacronistica revisione del trattato di Vienna risalente a oltre due secoli fa ed i cui effetti sono ormai diluiti nella storia, che il diritto internazionale è da sempre una sorta di finzione e che esso è dettato dalla politica dei fatti. E quali fatti questa fantomatica Città-Stato è in grado di attrezzare?

Gli esempi di Hong Kong e di Singapore , le cui origini, storia, prassi ed assetto economico sono altra cosa rispetto a Genova, non sono - purtroppo o per fortuna - pertinenti al caso genovese.

Le tradizioni e la cultura che improntano i popoli sono patrimoni importanti ma sono validati dalla capacità di corrispondere alle esigenze del presente: la selezione dei modelli di riferimento avviene sulla base della loro rispondenza all'adattamento. Non esiste una validità in astratto nella storia delle società e per questo i sistemi cambiano conservando parte del passato ma innovando nel contempo profondamente. Ritengo che niente sia più falso del "tutto è già stato" di Ben Akiba, ma sia vero il contrario "niente è già stato" e che quindi il futuro sia aperto: le società sono un prodotto della evoluzione della propria cultura e nulla garantisce che essa segua un andamento filogenetico che ne assicuri sempre la capacità di corrispondere alle sfide del proprio tempo. Questo è il patrimonio che il pensiero mediterraneo ed occidentale ha prodotto, e che ha trovato nella pratica democratica la sua espressione concreta producendo il migliore dei mondi imperfetti finora esistiti ed è, per i suoi meccanismi di funzionamento, proiettato verso migliori modelli pur sempre imperfetti.

I sistemi socio culturali sono fra loro in continua competizione, e con il procedere della globalizzazione gli ambiti locali si trovano a confrontarsi sempre più direttamente con altri sistemi, dato il progressivo venir meno della influenza degli stati nazione. Oggi la capacità competitiva, che è un prodotto della intreccio fra fattori sociali, culturali ed economici, non risiede né nelle rendite di posizione, localizzative o normative, né nelle formule istituzionali, ma nella capacità di affermare la propria identità di sistema in un ambito competitivo assai complesso. Bisogna in altri termini essere capaci a nuotare in un mare aperto, e mi rendo conto che per una società come quella ligure, abituata da troppo tempo a vivere di sostegni esterni, non è cosa agevole. Dall'industrìa di Stato prima, allo stesso recupero del Porto antico e del Centro storico oggi molto è dovuto ai trasferimenti pubblici dello Stato e poco o nulla all'impegno dì risorse da parte dei Genovesi e dei Liguri. La stessa redditività delle famiglie derivante in larga misura da pensioni, da impieghi pubblici o parapubblici, da rendite da capitale finanziario che non ama il rischio di impresa, evidenzia lo stato di stagnazione dell'economia. L'equilibrio involutivo, che da lungo tempo contraddistingue la nostra realtà regionale, è cadenzato da alcuni elementi preoccupanti basti citare: l'invecchiamento della popolazione e la relativa sua erosione, la mancanza di un tessuto significativo di imprese manifatturiere, la progressiva riduzione della presenza di società liguri nel comparto delle attività marittime e portuali e dei sevizi alle stesse, l'ampia incidenza della occupazione pubblica (diretta ed indiretta), la carenza endemica delle infrastrutture di trasporto e di collegamento con le aree forti dello sviluppo nazionale ed europeo. In altri termini si registra, da tempo, una carenza di capacità imprenditoriali sia nel mondo economico che in quello politico e sociale.

Sembra che il darsi da fare non alberghi più dalle nostre parti.

Del che sì trova traccia, per quello che vale, negli indicatori del PIL che risultano crescere debolmente, attestandosi sui valori medi nazionali, senza accenni di recupero rispetto al forte calo registrato con la crisi del industria di Stato; mentre, nel contempo, si assiste ad una contrazione della raccolta bancaria un tempo assai abbondante. La responsabilità delle forze politiche della sinistra che hanno governato, e che ancora in parte governano, questa città e questa regione è indubbia, è infatti una peculiarità di queste forze, almeno a livello ligure, operare per mantenere l'esistente, bloccando ogni dinamica innovativa di apertura verso l'esterno, al fine di poter conservare la gestione del potere. Tuttavia non possiamo non chiederci quanto questa gestione del declino, che è il portato dì queste politiche, non sia anche coerente con la visione che gli abitanti di questa Città hanno. Se ciò non fosse queste forze politiche non avrebbero potuto continuare a governare per un trentennio; mi sembra peraltro che anche le forze di opposizione, che non paiono agire in modo propriamente innovativo, risentano di questo stato di cose. Si afferma cosi una concezione minimale della Città, caratterizzata da chiusure corporative verso l'esterno: i rapporti trasversali, sotto il profilo politico, che caratterizzano il comportamento delle élite sono orientati al perseguimento non di obbiettivi di sviluppo e di crescita ma di suddivisione delle occasioni di business che, seppure in via di riduzione, pur sempre sussistono.

Stante questa situazione ogni immissione esterna, vuoi di tipo imprenditoriale, vuoi volta a connettere la Città con i sistemi esterni più vitali, viene vista nei fatti, al di là delle dichiarazioni di bandiera, con ostilità. Valgano per tutti gli ostacoli frapposti dall'allora sindaco comunista Burlando, all'inizio degli anni '90, alla costruzione della bretella Voltri-Rivarolo già finanziata e con i lavori già iniziati, e la bizzarra ipotesi formulata dal presidente Marta Vincenzi di andare da Voltri a Busalla per uscire a San Pier d'Arena; ed ancora la assoluta mancanza di nuove opere viarie significative a partire dagli anni '70 per adeguare la rete viaria cittadina alle esigenze dello sviluppo della mobilità urbana che una città moderna richiede. Si comprendono meglio, in tal modo, gli ostacoli che sempre sono stati frapposti agli insediamenti di aziende dall' esterno anche in periodi di gravi crisi occupazionali (clamoroso fra le altre è il caso della Digital), la scelta strategica degli amministratori cittadini di puntare sulla grande distribuzione (le Coop ed altri minori) e sulla attività immobiliare prima popolare e poi di pregio (sempre Coopsette alla Fiumara e S. Biagio ma anche a Voltri, Pra, Quarto, Centro etc.), e la conseguente modesta reattività degli imprenditori paghi di operare in ambiti più o meno protetti sia pure in condizioni di subordinazione. Operare in una situazione concorrenziale, che tutti a Genova paiono voler esorcizzare, è indubbiamente più rischioso e difficile ma è la sola condizione che consente ad un sistema locale di svilupparsi e di assicurare occasioni occupazionali per le future generazioni.

Ritengo che giunti a questo punto sia fortemente illusorio ritenere che da solo il sistema locale genovese sia in grado di dare vita ad una nuova stagione di sviluppo, né è pensabile che esso possa fare riferimento a nuovi massicci investimenti pubblici, destinati peraltro in generale a ridursi forzatamente. Soltanto con una immissione di risorse manageriali, imprenditoriali, finanziarie e l'affermarsi di nuovi modelli culturali di collaborazione competitiva il sistema locale può essere rivitalizzato (e non certo attraverso l'immissione di terzomondiali come pare essere di moda). Ciò significa accettare la rottura degli equilibri esistenti, che sono di natura involutiva, aprendo il sistema - oggi chiuso ed escludente - alle immissioni esterne sia di ordine economico che culturale, ricercando l'integrazione con il sistema forte dello sviluppo economico che si estende dalla Padania al centro Europa. Questo non significa affatto abdicare alle proprie specificità culturali ambientali ed anche linguistiche ma semplicemente accettare una sfida che il nostro tempo pone.

Già agli albori del 14° secolo era chiaro nel pensiero del tempo che Genova e la Liguria traevano la loro forza dall'essere cerniera fra il mediterraneo e l'interland padano: tale ovvia constatazione pare essere venuta meno ai nostri giorni perseguendo una visione autarchica che rischia di essere letale.

È chiaro che una importante risorsa come quella portuale non può essere vista in un ottica di gestione Genova-centrica, anzi essa è in primo luogo al servizio dell'interland Padano, Svizzero e Tedesco meridionale. È alle loro esigenze che deve essere in grado di rispondere efficacemente specie in un momento nel quale la concorrenza di altri porti mediterranei diventa sempre più serrata. Così come la capacità di creazione di nuove attività imprenditive è da giocarsi prevalentemente al di fuori dell'ambito locale e trova in una nuova rete di collegamenti infrastrutturali con l'oltreappennino il suo sostentamento.

Un ultima osservazione riguarda una questione che assume i connotati dell'attualità: la realizzazione dell'istituto italiano delle tecnologie previsto dalla nuova finanziaria che, come recentemente affermato dal ministro Bossi , dovrebbe essere localizzato a Genova.

Mentre potrebbe essere una occasione per aprire Genova alla interazione con risorse scientifiche e imprenditive (senza le quali ultime il progetto non ha futuro) a cominciare da quelle del nord Italia, cominciano ad affiorare le usuali tendenze autarchiche: da chi, nel mondo scientifico, afferma "dateci i soldi che ci pensiamo noi" a chi, come la Camera di Commercio di Genova - che notoriamente si connota per mancanza di vitalità operativa e per l'incapacità di produrre qualsivoglia idea progettuale di sviluppo -, ritiene di proporne la localizzazione a Cogoleto nell'area dell'ex Ospedale Psichiatrico senza alcuna motivazione che non sia di ordine immobiliare, prima ancora di chiarire che cosa questo istituto debba essere e cosa debba fare.

Questo in buona sostanza è oggi lo stato della Città in cui ho antiche radici, in cui sono nato e vivo e che, essendo parte di me, voglio pensare che conosca una nuova stagione di vitalità, che diventi un luogo aperto al mondo in cui si torni a trafficare.

Con Milano?

Sì certo, anche con Milano.

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