liguria@francobampi.it

Home > Anch'io racconto Genova > Giorgio: un albanese a Genova nel 1389

[ Indietro ]

Giorgio: un albanese a Genova nel 1389

Franco Bampi

«Il Dialogo», n. 3 - ottobre 2003

Nel XIV secolo i turchi ottomani, imperversando con le loro sanguinose scorrerie nei Balcani, arrivarono a sconfiggere, nella battaglia detta del Campo dei Merli del 28 giugno 1389, i serbi cristiani del Kossovo; da allora nel Kossovo diverrà predominante la presenza degli albanesi che verranno quasi totalmente convertiti all’Islam dai turchi. Molte furono le persone che, con alterne fortune, cercarono riparo in terre meno travagliate. Fu così che un genovese, Manuele de Valente, ebbe l’occasione di acquistare a Messina Giorgio, uno schiavo albanese fuggito dalla sua terra nel 1387. Trasferito a Genova, terra di commercianti e di intraprendenti imprenditori, Giorgio si rese conto che in questa città tollerante il riscatto degli schiavi non era per niente inusuale. Fu così che decise di presentare una supplica al doge Antoniotto Adorno (doge “perpetuo” per la seconda volta e lo fu per quattro!), in cui comprovava la sua fede cristiana e l’infame tradimento di cui fu vittima. Infatti, imbarcato con la moglie e tre figli su una barca siciliana, appena giunse a Messina fu venduto a tradimento come schiavo al genovese Valente, ma egli in Albania era uomo libero e tale voleva ritornare ad essere. Scrive Amedeo Pescio: «Antoniotto Adorno, uomo violento e ambizioso, ma non malvagio, lo fece liberare (1389), gli concesse la cittadinanza genovese e la patria d’origine, Durazzo, divenne il cognome della nuova famiglia, che salì poi a grandissima fortuna e alle più alte dignità». È interessante notare come, coerentemente con il costume genovese, il Doge non esitò a riconoscere i legittimi diritti di uno straniero sebbene in contrapposizione con gli interessi di un genovese: il quale certamente fu risarcito anche se la storia non ci dice quanto Giorgio Durazzo dovette pagare per il suo riscatto. E a Genova le occasioni di lavoro certo non mancavano: alla metà del '400 un Antonio Durazzo, probabilmente suo nipote, cominciò l’attività di setaiolo e di merciaio in Pietraminuta, stabilendo le basi per la successiva fortuna della famiglia. In duecento anni i Durazzo, che furono profughi e schiavi albanesi, daranno alla Repubblica di Genova otto dogi, che salgono a nove, se si include anche Girolamo Durazzo che dal 1802 al 1805 fu doge della Repubblica Ligure di stampo Napoleonico. Ebbero un arcivescovo, cardinali e diplomatici, sontuosi palazzi in Strada Balbi e case di villa.

Questo è ciò che davvero accadde a Genova nel XIV secolo. Potrebbe accadere anche oggi? È verosimile oggi che un extracomunitario albanese possa diventare sindaco di Genova o presidente della Regione Liguria? Come ho già illustrato su «Il Dialogo», n. 3 del 2001, Genova era città cosmopolita e tollerante con la formidabile capacità di integrare le persone richiedendo, senza compassionevoli buonismi, il pieno rispetto degli usi, dei costumi e delle leggi vigenti a Genova: questo fecero i Durazzo e divennero dogi. Oggi viviamo in una società diversa dove il fenomeno migratorio presenta purtroppo rilevanti aspetti di ordine pubblico. Ma se Genova vuol davvero essere ancora fedele al suo glorioso passato deve offrire allo straniero un’alternativa. O lo straniero vuol rimanere tale e allora egli manterrà i propri usi e la propria cultura con la speranza e l’ambizione di ritornare alla propria terra d’origine per farla crescere e prosperare. Oppure lo straniero vuole, come Giorgio, diventare genovese e integrarsi: allora deve accettare i nostri usi, i nostri costumi, la nostra lingua, le nostre leggi. E per fare ciò occorre che le istituzioni, Comune in testa, sappiano proporgli dei percorsi d’integrazione in cui insegnargli la storia della civiltà ligure e dei suoi grandi valori affinché egli non sia più straniero ma genovese tra genovesi. Una sfida questa, cui è difficile sottrarsi.

[ Indietro ]