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Il Secolo XIX
Domenica 30 luglio 2000

L'intervento

Le richieste della paperella
di piazza De Ferrari

Francesco Tomasinelli*

Stamane, mentre attraversavo piazza De Ferrari, come tutte le mattine (o meglio la costeggiavo essendo questa invasa da cantieri per lavori vari), per recarmi a prendere il mezzo che mi porta al lavoro, sono stato colto da improvvisa meraviglia nello scorgere una paperella che pedinava graziosamente attorno alla fontana.

Nel passato avevo notato, appollaiati sul bordo della vasca superiore, diversi tipi di volatili: gabbiani, colombi, tortore e piccioni, ma una papera mai!

La curiosità mi ha spinto ad avvicinarla per domandarle chi fosse, da dove venisse e che facesse in un luogo come quello non certo congeniale alle sue abitudini di vita.

Si deve sapere che essendo io un animale (specificatamente un asino), come sostengono molti miei amici (si fa per dire), mi intendo perfettamente con i miei simili comprendendone senza fatica il linguaggio.

Alle mie insistenze, allora, quella rispose, sulle prime senza sussiego, che era l'ambasciatrice del popolo delle anatre venuta a Genova per verificare alcune notizie assai interessanti circa i nuovi apprestamenti di arredo urbano che avrebbero reso assai piacevole un loro insediamento in loco.

Era, in sostanza, giunta voce, sin al paese delle papere, che la piazza sarebbe stata dotata, per opera di un famoso architetto tedesco, di nuove bocche di erogazione d'acqua le quali avrebbero incrementato le superfici idriche, con un considerevole numero di pozze, dove la specie avrebbe trovato diletto e conforto.

Ancor più sorpreso rimasi, però, quando il gentile palmipede mi interrogò in merito alla possibilità, da parte mia, di suggerire, a chi di dovere, di liberare nei nuovi stagni qualche varietà di pesce che avrebbe garantito alla comunità in arrivo una dignitosa sopravvivenza. Ciò al contempo avrebbe dato pieno compimento ad una meritevole opera di solidarietà di cui la città, in casi recenti, aveva ricevuto non trascurabili riconoscimenti.

Quale migliore affermazione di carità, infatti, che quella di sovvenire alle necessità esistenziali di una specie tanto vilipesa dagli uomini? Non potevo darle certamente torto! Passava di seguito ad elencare una serie di famiglie ittiche molto gradite alla sua razza concludendo che comunque non avrebbero disdegnato neppure gli orifiamma (pesci rossi per chi non si intende della materia), di carne più ordinaria e meno gustosa delle altre, ma sempre commestibili.

Aggiungeva poi, con una buona dove di acume, che in questo modo con una fava si catturavano due piccioni (specie questa, si vede, invisa alle papere), poiché da un lato le si rifornivano di nutrimento e dall'altro si offriva un divertimento ai bambini (e non solo).

Non seppi rispondere circostanziatamente.

Me ne accorsi dalle occhiate in tralice che mi lanciava, pensando dentro di sé che molto probabilmente aveva incontrato il più stupido fra i cittadini genovesi.

Farfugliai qualche poco credibile giustificazione confermando, per quanto avevo appreso dai giornali, la notizia dei getti d'acqua, mentre per il resto, vale a dire per un mio eventuale interessamento a proporre una piscicultura nella vasca della fontana e nelle nuove pozze circostanti, ammisi di non sapere a chi rivolgermi non disponendo io di sufficiente dimestichezza (in gergo maniglie) con personaggi che mi avrebbero potuto far ottenere quel risultato.

Ci salutammo con la raccomandazione, da parte sua, di tenerla informata sugli sviluppi futuri della questione soprattutto perché, mi disse, come spesso accade anche presso noi, aveva assunto, tanto per arrotondare, un incarico dal popolo delle oche di condurre una identica indagine.

Confesso che la dichiarazione mi allarmò non poco.

Pregai quindi, l'ambasciatrice di soprassedere l'incombenza evitando così di aumentare il numero delle oche che, in spoglie umane, già risiedevano in città.

* Docente di Ingegneria
Università di Genova

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