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Il Secolo XIX
Venerdì 2 dicembre 2005
Ditelo a Maggiani
IL TEATRO DELLA GIOVENTÙ,
UN RESTAURO DISCUTIBILE
Caro Maggiani, pochi giorni fa mi sono trovato a passare davanti al
Teatro della Gioventù in Via Cesarea, a Genova, e mi ha incuriosito il
suo recente restauro. Ricordavo il teatro, opera di Crosa di Vergagni,
come bell’esempio di stile razionalista; ora fatico a riconoscerne i
tratti salienti. Anche a un profano come il sottoscritto balza subito
agli occhi la scelta del particolare tipo d’intonaco e il mutamento di
colore dei prospetti: in luogo dei soliti austeri cromatismi tipici del
razionalismo sono state adottate calde tinte pastello (spugnate...)
che fanno ora apparire il Teatro della Gioventù come un palazzotto
quattrocentesco genovese. Per non parlare delle vaste vetrate piazzate
in facciata del tutto avulse sia dall’originario contesto razionalista,
sia dal nuovo maquillage di stampo “rinascimentale”. Ho l’impressione
che tutto ciò derivi non tanto dalle stravaganze di qualche
architetto-restauratore, quanto piuttosto dalla profonda insensibilità
che Genova ha sempre dimostrato verso la propria storia architettonica
e, in particolare, verso l’architettura razionalista. Una sorta
d’imbarazzo o insofferenza che fino a poco tempo fa si traduceva in un
uso disinvolto delle ruspe (vedi il mercato dei fiori di Paride Contri,
Villa Venturini di Daneri e così via), mentre oggi, se proprio non si
può demolire, almeno si cerca di cambiare radicalmente i connotati di
tutto ciò che appartiene alla corrente razionalista. Eppure gioverà
ricordare che il razionalismo, soprattutto a Genova, è stato l’ultimo
movimento architettonico degno di rilievo.
Dopo di ciò, solo qualche rara personalità isolata e - per il resto
- un insensato lassismo dei pubblici governanti che hanno permesso scempi
del nostro territorio (la diga di Begato, le lavatrici di Prà, il Cep)
e obbrobri edilizi in pieno centro cittadino (il complesso texano di
Corte Lambruschini, l’ex grattacielo Sip, via Madre di Dio).
Ed è grottesco che nessuno invece provi una vera ripugnanza o imbarazzo
verso questo genere di costruzioni che, temo, dovremo sopportare senza
sconti ancora per chissà quanto.
Stefano Torello
Genova
Miele che sgorga dalla sua penna e fluisce dolce ai miei padiglioni
auricolari, signor Torello. Vede, io sono profano quanto e più di lei,
e nella mia ignoranza trovo che l’architettura razionalista sia l’ultima
grande architettura urbana e civile del nostro Paese. Lo vedo camminando
in mezzo alle città, non sfogliando libri di architettura. E devo dirle
che trovo straordinario il fatto che nel paese con tanti architetti
quanti ce n’è in tutte le altre nazioni europee messe assieme, si sia
riusciti dal dopoguerra in poi a collezionare una così vasta cloaca di
schifezze urbane. Come constato che i rari esempi di buona e bella
architettura contemporanea si debbano per buona parte ad architetti
stranieri. E, avvilito, ho letto l’appello al presidente del Consiglio
e al presidente della Repubblica dei patrii architetti che tengono
famiglia perché li si faccia lavorare di più. E trovo che la più bella
piazza urbana moderna di Genova sia piazza Dante, come trovo che sia
bella anche piazza della Vittoria, sempre che la si ripulisca da ciò
che le stato buttato addosso a posteriori. E non me ne frega niente
se quando si dice architettura razionalista si dice architettura
fascista. Alla fin fine, se pure il fascismo ha voluto dagli architetti
un oneroso contributo alla sua boria e al suo cattivo gusto, non ha
chiesto tanta spazzatura quanta ne hanno pretesa le istituzioni
democratiche repubblicane. Forse anche perché i grandi architetti
di allora gliene hanno voluta dare di meno di quanta non siano
disposti a farsene commissionare quelli di oggi.
Ho visto anch’io il Teatro della Gioventù e ci sono pure entrato
dentro. La mia impressione, di sprovveduto e di orbo, è che il
restauro sia stato fatto in disprezzo, o ignoranza, dell’opera
originale e chi l’ha fatto non avesse neppure un grande amore per il
teatro in genere e neppure una sua buona pratica. Ho avuto l’impressione
che i progettisti non avessero messo piede, se non per l’occasione,
in un proscenio e tantomeno tra le quinte di un teatro. Non c’era un
montacarichi per il palco né un praticabile che fosse utilizzabile
da un macchinista per le abituali operazioni di messa in scena. Ma
c’era, pensi un po’ - e immagino che tuttora ci sia - una botola
servo-assistita per eventuali sparizioni a opera di maghi. Ma so
che ci hanno rimesso mano e credo che adesso si possano montare le
scene senza far passare le attrezzature sopra le bellissime, e
costose, poltrone della platea. Mi domando se un teatro progettato
senza amore e competenza possa avere una vita felice come si
meriterebbe ogni presidio culturale, e mi rispondo che ce la dovrà
mettere tutta. Staremo a vedere. E, meglio ancora: andiamoci, a
teatro.
[risposta di Maurizio Maggiani, ndr]
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