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Risorgimento tra retorica, finzione e rigurgiti neoborbonici

di Romano Bracalini

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Quando comincia e finisce il Risorgimento? Il quesito non dev’essere secondario se gli storici ancora ne discutono senza giungere a un risultato univoco e condiviso. In Francia il 1789 segna l’inizio della grande Rivoluzione; il 1776 è l’anno della Dichiarazione d'indipendenza americana. Non ci sono dubbi sul loro significato fondativo. In Italia, invece, anche per le celebrazioni del 150° dell'unità, i pareri continuano ad essere discordi e contraddittori. Solitamente si fa coincidere la conclusione del processo unitario con la proclamazione del regno d’Italia, nel 1861, ma tenuto conto che mancano ancora Roma e Venezia c’è chi preferisce posticipare la data al 1870, quando il “plebiscito tenuto a Roma parve porre un suggello più definitivo al processo di unificazione nazionale”; ma non manca una interpretazione in chiave nazionalistica che chiude il ciclo storico con la prima guerra mondiale (spacciata per quarta guerra di indipendenza) quando l’Italia con Trento e Trieste completa l’unità territoriale. Più difficile ancora trovare un accordo sulla data di inizio. Se è vero che è con la rivoluzione europea del 1848 che il processo unitario si mette in moto, parecchi storici hanno adottato come data d'inizio il 1815 (Congresso di Vienna), altri il 1796 quando sotto l'influenza francese comincia ad affermarsi lo spirito di nazionalità che è alla base della predicazione mazziniana. E tuttavia non passarono molti anni che si dovette ammettere che gran parte degli obiettivi erano stati falliti. “Se questa è l’Italia, era meglio non averla fatta”, diceva Sidney Sonnino. Ci si avviava a celebrare il 150° nel solito clima enfatico e teatrale, così conforme al carattere italiano, quando il revanscismo neoborbonico e certa libellistica a sensazione hanno riproposto la questione Nord-Sud come cruciale e che più che mai divide il paese. Cosi alle spinte centrifughe del Nord, cominciano a corrispondere analoghe rivendicazioni “etniche” dal Mezzogiorno. Il fatto è che la questione meridionale al momento dell’unificazione venne sottovalutata. Si preferì “costruire” il mito dell’Italia unita, che non era mai esistita. Così per risvegliare la vena inaridita degli italiani, la letteratura romantica, da Massimo D’Azeglio a Tommaso Grossi, recuperò nel confuso repertorio del passato leggende di nobili cavalieri che difendono l’onore nazionale offeso e storie edificanti in cui rifulge l’eroismo italiano. Edmondo De Amicis, il più fantasioso di tutti, racconta le guerre di indipendenza ad uso degli scolari come la prova della volontà di redenzione di un popolo dimenticando di dire che le ultime due campagne furono vinte grazie ai francesi e ai prussiani e che la prima combattuta dai soli piemontesi fu persa ignominiosamente. Era questa l’Italia che Mazzini voleva tornasse a primeggiare. È forse per questo che il fascismo alla ricerca di eroi leggendari da propinare alla credulità del pubblico, riservò a Mazzini, benché repubblicano, ma presentato come eroe protofascista, un posto d’onore nel Pantheon dei padri fondatori, da Dante a Balilla, a Enrico Toti che lancia la stampella contro il nemico, restando il mistero, che la retorica nazionale non ha sciolto, come uno storpio potesse trovarsi in prima linea se non all'unico scopo di fargli compiere un improbabile gesto di eroismo. La retorica ufficiale s’è inventata parecchi precursori per dimostrare che il sogno dell’unità veniva da lontano. Riunire la penisola sotto un'unica casata parve all’imperatore Federico Il, di pura schiatta tedesca, altrettanto impossibile che “incatenar le nubi”. Dopo di lui, il duca Cesare Borgia, detto il Valentino, ispiratore del Machiavelli, si sarebbe accontentato di unificare l’Italia centrale, esclusa la Toscana, omogenea per lingua e cucina, ovvero l’Italia della “porchetta e del brodetto”, quella che va da Roma alle Marche e all’Umbria, futuro Stato Pontificio. Napoleone I, benché poco rispettoso della sovranità dei popoli, concepì le due Cisalpine, con la repubblica italiana (1802) e infine il regno d’Italia (1805), un vasto regno unificato del Nord, sotto sovranità francese, con capitale Milano. Il ’48 rimette in discussione tutto e perfino un fior di reazionario come Carlo Alberto può presentarsi con l’ambiziosa divisa del “liberatore di popoli”. Ma Carlo Alberto, “L’Italo Amleto”, è ossessionato dal dubbio. Vado o non vado? E quando si decide a varcare il Ticino va incontro a una duplice sconfitta, all’esilio, alla morte. Carlo Alberto, il primo Carignano di gentile aspetto, ma non di acuta intelligenza, altissimo e malinconico, macera le proprie incertezze nelle pratiche di religione. I Savoia sono così: bigotti o mangiapreti, troppi alti o troppo bassi da sfigurare alla leva; mai una misura di equità. Sono purtroppo i sovrani che ha avuto in sorte l'Italia. Si dice che Carlo Alberto porti il cilicio ma ciò non gli impedisce di abbandonarsi a scene erotiche come un detraqué (squilibrato). “Re liberatore”, lo acclama la propaganda che vuole farne un eroe per forza alla testa del movimento tricolore. Tiratovi per i capelli, lui ci prova poveretto! Così nel 1848 arrivando a Milano, a cose fatte, cioè a città liberata dai milanesi, adotta il tricolore, simbolo repubblicano, derivato dal drapeau francese, e stempera il significato rivoluzionario mettendo nel bianco della bandiera lo stemma dei Savoia. S’è mai vista una monarchia giacobina che riesce a conciliare rivoluzione e diritto divino? I Savoia, per opportunismo e tornaconto, vi riuscirono, pur restando nell'animo e nelle abitudini dei rozzi vassalli dei re di Francia. La metamorfosi del re “cittadino” è appena agli inizi. “Tutti i miei averi, i miei figli, la mia vita stessa per il trionfo della causa nazionale”. Frase impegnativa che deve essere tradotta perché il re sabaudo parla solo francese. Fuori dell’angusto e gesuitico Piemonte nessuno conosce quel re troppo lungo e baciapile che non disdegna le gonnelle. Così la sincerità della causa che dice di voler difendere sembra piuttosto dubbia oltre che di recentissimo conio. Ed è la propaganda ad amplificare il nobile messaggio; ma i primi a non crederci sono i liberali che egli ha così spesso tradito. Nel ’21 appoggia i “carbonari”, fa credere d’essere uno di loro e poi li abbandona alla vendetta del re Carlo Felice, suo zio, ribattezzato dal popolo angariato Carlo Feroce. Nel ’48, sotto l’incalzare degli avvenimenti europei, è costretto a concedere lo Statuto, octroye, ossia dall’alto. Dove sono le felici promesse del futuro regno unitario? Certo, grande senso della regalità e del prestigio, sebbene ambasciatori e funzionari stranieri descrivano l’etichetta di corte come la più stucchevole e antiquata d’Europa. Il re che ha la tristezza scritta sul volto, come una prefigurazione del destino, si affida al fato e ne fa il suo motto luttuoso: J’attent mon astre, in francese arcaico, che così bene si adatta alla corte più lugubre d'Europa. E il destino si compie. Nella guerra del 1848-49, a riprova che i suoi timori non erano infondati, Carlo Alberto perderà tutto; e solo la generosità di Radetzky permetterà a suo figlio, diventato re, Vittorio Emanuele, di accettare le condizioni non troppo onerose per il Piemonte, esposto al pericolo di una invasione se solo l’Austria l’avesse voluto. Nell'armistizio di Vignale gli storici di corte descrivono il giovane Vittorio Emanuele in un atteggiamento sdegnoso, quasi che il vincitore fosse lui, e non il vecchio maresciallo austriaco che anche in quella occasione darà la misura del suo onore di soldato e di gentiluomo. Nello svolgimento degli eventi dal 1859 in poi, il diplomatico e politico francese Adolphe Thiers, futuro presidente della Terza repubblica, non ravvisava se non la pratica del motto di un principe sabaudo: “L'Italia è un carciofo che casa Savoia deve mangiare foglia a foglia”, che ben si accorda con la loro fama di “ladri di terre”. Sotto la regia del conte di Cavour, geniale e spregiudicato, ma poco conoscitore del mosaico italiano che ha l’ambizione di voler ricomporre, Vittorio Emanuele stipula un'alleanza politico-militare col “golpista” Napoleone III, imperatore dei francesi, che ambisce a stabilire un “protettorato” sulla penisola. In cambio offre il suo aiuto per “liberare” l’Italia dagli austriaci. Chissà dov’è la differenza! La campagna del ’59, a lungo preparata, avrà un brusco epilogo. Nizza e Savoia sono il prezzo del sangue francese. Il Piemonte avrà la Lombardia che gli austriaci in un supremo atto di disprezzo hanno ceduto alla Francia. Nelle fasi dell’armistizio di Villafranca i piemontesi erano rimasti fuori della porta. Cavour fuori di sé era giunto a minacciare il re gridandogli sul muso: “Voi siete una merda”, detto però in francese che faceva più fino. Chissà cosa aveva creduto! Il Piemonte era un piccolo stato militarista ma non era la Prussia. Il 1859-60 è il biennio decisivo. La Sicilia, il Mezzogiorno continentale, l’Italia centrale. Tutto è rapidamente conquistato. I plebisciti voluti dalla Corona dovrebbero sancire la volontà popolare che nessuno ha consultato. La storia del nuovo Stato comincia con un sopruso; per schiacciare la ribellione meridionale ci vorrà un esercito di invasione e la medesima ferocia dei croati a Milano. Dov'è la differenza? Cavour, che ha avuto appena il tempo di vedere l’epilogo del suo “capolavoro”, tutto questo non l’aveva previsto. Del resto oltre Firenze non era mai stato. Era la prima volta che Nord e Sud si incontravano, o meglio che venivano a collisione. Una frattura che non sarà più sanata in un secolo e mezzo di storia unitaria. I costumi e le abitudini non cambiarono dopo il 1861, benché la propaganda facesse ogni sforzo per decantare la perfetta armonia e i vantaggi politici ed economici derivati dall’unità. L’ideologia risorgimentale, come sovente fanno i vincitori, prima che vengano chiamati a rispondere dei loro fallimenti, bollò gli antichi Stati come peggio non si poteva, allo scopo evidente di far rifulgere al meglio le qualità della “nuova” Italia. Messo alla prova, il nuovo regime non si dimostrò migliore dei governi assoluti. In molti casi si dimostrò infinitamente peggiore e più lontano dalle aspettative del popolo di quanto non lo fossero stati gli antichi principi. Né venne assicurata maggiore libertà e giustizia sociale: malcostume, arbitrio e corruzione continuarono ad allignare esattamente come prima, se non di più. Quanto al progresso materiale, l’industria e l’agricoltura, specie nel Nord-Ovest, erano già in stato avanzato molto prima dell’unità e il benessere economico, in proporzione ai tempi, un dato largamente acquisito grazie alle ferrovie, alle strade, alle navi a vapore, ai moderni opifici del Centro-Nord. Oggi non solo la distanza è aumentata tra i due capi della penisola, ma le statistiche dimostrano che il Nord ha perduto competitività, senza alcun vantaggio per il Sud che continua a perdere terreno. Alla metà dell'Ottocento Milano era considerata una delle città più ricche ed eleganti d'Europa. Rispetto alle città italiane la capitale lombarda continua a mantenere il primato della ricchezza e della modernità; ma l'eleganza e il senso civico, che avevano affascinato Stendhal, non sembrano più il tratto distintivo. Quanto è avvenuto dopo il ’61 non ci sembra di poterlo catalogare sotto la voce “progresso”. Fin dal suo esordio l’Italia sabauda accentuò il carattere reazionario e aggressivo con dispendiose e fallimentari avventure coloniali e guerre di conquista. Al popolo venivano negati i fondamentali diritti costituzionali. I poveri e gli analfabeti non votavano. Le tasse erano tra le più alte d’Europa. Il nuovo stato unitario sembrava piuttosto la sommatoria degli antichi Stati, da cui aveva ereditato solo i lati peggiori e gli antichi vizi di forma: corporativismo, clientelismo, autoritarismo e nessun barlume di coscienza nazionale moderna. Ciascuno restava legato alla propria regione, alle proprie abitudini. Alle manchevolezze e ai lati oscuri sopperivano le “correzioni” della propaganda. Fatto sta che il Risorgimento venne intriso di troppe leggende, “menzogne necessarie a tutte le rivoluzioni”, le aveva definite con “rude franchezza” Ferdinando Martini. Il 150° era l’occasione per un pacato ed equilibrato bilancio. Invece ha visto il moltiplicarsi di libelli neoborbonici che, sfruttando le delusioni di quelle popolazioni, hanno descritto il Mezzogiorno come un Eldorado, prima dell’unità, per far sembrare più insopportabile e frutto di calcolo di interesse la “conquista”: pure invenzioni fantastiche che tuttavia il pubblico meridionale, per senso di rivalsa, ha accolto come verità inconfutabili che non avevano bisogno di dimostrazione. L’inganno è stato completo. Eppure all’indomani dell’unificazione il quadro era già abbastanza chiaro circa le differenze e il diverso grado di sviluppo e nessuna seria statistica avrebbe potuto smentirlo. Ma già allora vi fu chi – per esempio Francesco Saverio Nitti – aveva tentato di accreditare la leggenda di un Mezzogiorno, ricco e benedetto da Dio, che di gran lunga sopravanzava il Nord nell’economia, nel progresso e nello sviluppo civile; e furono Salvemini e Fortunato a smentire questo quadro d’ottimismo rammentando che nel Mezzogiorno, tranne qualche breve tratta intorno a Napoli, non v’erano ferrovie, strade, industrie moderne e l’analfabetismo toccava punte del 90 per cento. L’autore di queste note ha scritto un libro per l’editore Rubbettino: Brandelli d’Italia, 150 anni di conflitti Nord-Sud, (domenica 29 maggio 2011: copia sul FBW) allo scopo di ricomporre minuziosamente, senza preconcetti, i termini della questione, con tutti gli attori e i protagonisti del dramma (perché di questo si tratta). Se non servisse a rendere più consapevoli i lettori del Sud sulla necessità di trovare altre strade e nuove energie e di invertire la rotta, questo libro avrebbe fallito lo scopo. Ma un fatto è certo: se il Sud continuerà a macerarsi nel rimpianto sterile e nell’orgoglio ferito, non avrà scampo. La libellistica neoborbonica, con l’avallo di critici compiacenti, non serve e non aiuta al Sud; anzi lo danneggia coltivando false illusioni: “Siamo più poveri perché il Nord ci ha rubato tutte le nostre ricchezze”, è la fola che si sente ripetere. Una libellistica, sconsiderata e mendace, che sobilla il Sud nel suo secolare complesso. Accentua il contrasto. Mette gli uni contro gli altri, come avvenne alla fine dell’Ottocento con Edoardo Scarfoglio, direttore del «Il Mattino», paladino di Crispi e del Sud, che minacciò di muovere guerra al Nord “sfruttatore”. Ma il revanscismo neoborbonico è la conseguenza degli errori compiuti. Un paese non può reggersi sull’inganno e sulla finzione. Così da una parte si ecceduto nella retorica di un Risorgimento ideale popolato di martiri e di eroi. Cosi dall’altra si è raccontato che il regno delle Due Sicilie era superiore al Nord; che le “parti erano invertite” al momento dell’unità, come ha ripetuto anche il governatore siciliano, Lombardo, sotto l’evidente impressione di cattive letture. Se i circoli oltranzisti neoborbonici non la raccontano giusta, anzi fanno a brandelli la storia, nemmeno la storiografia ufficiale s’è dimostrata troppo rigorosa e rispettosa della verità. Un errore genera l’altro. L’avvento di Roma capitale, un’altra idea di Cavour, divise ulteriormente il Paese anziché unirlo. Roma non si dimostrò un felice acquisto se le polemiche sono continuate fino ai giorni nostri. Veniva rimarcato il suo carattere scettico, irridente e parassitario. Erano contrari gli spiriti più avveduti che non attribuivano alla nuova capitale meriti speciali né virtù civiche, anzi ne aveva troppo poche per primeggiare su città che, bene o male, erano state al passo con la storia. Manzoni avrebbe preferito Firenze anche per “l'unità della lingua”. D'Azeglio considerava Roma una “fantasticheria medievale”. L’occasione venne quando, con la guerra franco-prussiana del 1870, le prime sconfitte costrinsero i francesi a ritirare il presidio da Roma. La presa di Roma, citata in tutti i manuali fino a farne un culto, non ebbe nulla di solenne. Il generale Kanzler, comandante delle truppe pontificie, chiamate dai romani “li caccialepri”, aveva disposto che i materassi dei suoi soldati, compresi quelli del papa, fossero messi a protezione dei monumenti e dei palazzi apostolici. Complessivamente vennero sparati 835 colpi di artiglieria, poi i bersaglieri entrarono di corsa dalla breccia di Porta Pia accolti dall’indifferenza dei romani. I morti italiani furono in tutto otto, ma la cifra non venne rivelata subito per dare l’impressione che i caduti fossero molti di più. L'indomani vennero mandati i fotografi e ai bersaglieri venne dato l'ordine di gettarsi a terra per “fare il morto”. Con qualche nostalgia per la grandiosità papale, il grande storico tedesco Ferdinand Gregorovius scrisse che “Roma perdeva l’atmosfera di repubblica universale per scadere al rango di capitaluccia degli italiani”. La storiografia ufficiale impegnata ad esaltare le nuove “conquiste” trascurò il fatto che Stati progrediti e civili, con codici all’avanguardia, come il regno Lombardo-Veneto, il ducato di Parma, il granducato di Toscana, i tre stati meglio amministrati della penisola (non a caso tutti e tre sotto influenza austriaca) dovettero abbandonare leggi, regole e consuetudini per applicarne altre infinitamente peggiori. Buone amministrazioni furono sostituite da inefficienti e tiranniche burocrazie, che ancora oggi ci opprimono, finché Stati, come appunto la Toscana, il primo stato europeo ad abolire la pena di morte, decaddero fino a perdere ogni primato dopo aver costituito un modello in tutta Europa. Né il nuovo stato, che voleva presentarsi come moderno, parve più dinamico ed efficiente. Il teatro la Fenice di Venezia, distrutto da un incendio nel 1836, venne ricostruito in due anni dall’amministrazione austriaca descritta dalla propaganda come “tirannica e retriva”. Magari ci fosse stato un granduca a Venezia quando la Fenice in tempi recentissimi andò a fuoco un'altra volta! Il teatro avrebbe riaperto più in fretta. Il sospetto che prese lentamente forma è che gli italiani, portati a combattersi tra loro, divisi in conventicole come nel Medio Evo, fossero incapaci di autogovernarsi e che l’interesse personale e di parte avrebbe travalicato quello collettivo. Non erano pochi gli osservatori stranieri che non si sarebbero meravigliati se l’esperimento unitario fosse fallito. Vittorio Gorresio su «La Stampa» del 19 novembre 1972 scriveva che “gli italiani dovevano ricercare in se stessi le cause di questo fallimento con la riserva che ogni processo di unificazione ha le sue esigenze costrittive e improvvisatrici che è impossibile deludere; con l'obiettiva constatazione che in breve giro di anni la pretesa piemontizzazione dell’Italia si è risolta in una meridionalizzazione effettiva del nuovo stato unitario tutto intero; e col triste avveramento della profezia di re Francesco Il di Borbone circa le difficoltà o l’impossibilità “di ogni governo” in un paese come il nostro”.

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