STORIA Alle radici della vocazione indipendentista dell'isola.
Un saggio di Spataro rivede alcuni luoghi comuni
A colpi di repressione, la Sicilia
divenne italiana
Maurizio Blondet
Nel settembre 1866 a Misilmeri gli insorti uccisero 31 carabinieri e li
fecero a pezzi; a Ogliastro, i corpi di tre militari piemontesi, denudati
e mutilati, furono trascinati per le strade; a Taroni quattro carabinieri
si suicidarono, gridando «Viva l'Italia», per non cadere vivi nelle mani
dei ribelli siciliani. La Sicilia era insorta contro l'Italia dei Savoia,
sei anni dopo l'unità (o l'annessione), con atrocità e ferocie che
ricordano la Vandea e il Vietnam. In quei giorni, la flotta inglese
incrociò davanti a Palermo «pronta, se la battaglia si fosse risolta a
favore dei ribelli, a stabilire nell'isola un governo provvisorio protetto
da Sua Maestà britannica».
Così lo storico e giornalista Mario Spataro nel suo I primi secessionisti.
Separatismo in Sicilia, 1866 e 1943-46 (Edizioni Controcorrente, Napoli,
pagine 371, lire 40 mila). Una parte non piccola del fascino dei libri
«revisionisti» (e questo lo è al più alto grado) consiste nell'aprire la
vertigine storica della possibilità; nel mostrare i nodi in cui la storia
avrebbe potuto divaricarsi, ed essere stata diversa. Nel 1866, la Sicilia
poteva diventare un protettorato britannico, come Malta. Fra il 1943 e il
1944, occupata dalle truppe alleate, la Sicilia avrebbe potuto diventare
uno degli Stati Uniti d'America, o uno stato indipendente; e di fatto per
diversi mesi i siciliani si autogovernarono sotto il protettorato militare
Usa, e fu «un'autogestione priva di burocrazia e ricca d'iniziative
commerciali e industriali», appoggiata esplicitamente dagli angloamericani.
Una cosa si deduce dalla lettura di questo libro anomalo: che la Sicilia,
se è rimasta italiana, non è l'ha fatto certo per sue naturali propensioni.
Al contrario. Spataro documenta - in modo convincente, il che
è peggio - come l'italianizzazione del popolo siciliano sia stata
ottenuta, a fatica, a forza di repressione e trame sporche. Nel 1866, la
rivolta siciliana fu domata da sei fregate e corazzate savoiarde che
bombardarono e mitragliarono Palermo: la flotta italiana, «reduce dalla
vergogna di Lissa» dov'era stata disfatta dall'inferiore flotta asburgica,
si rifece massacrando il popolino dell'isola. Il 22 settembre 1866 sbarcò
a Palermo il generale Raffaele Cadorna, padre di colui che sarebbe stato
disfatto a Caporetto, inviato da Ricasoli come «commissario regio con
poteri straordinari»: costui istituì tribunali speciali, fucilò e
incarcerò in abbondanza (specie preti, la «nefanda setta clericale», fra
cui il novantenne vescovo di Monreale). Abbondarono i saccheggi, e le
esecuzioni di massa: un ufficiale del 10 granatieri di Sardegna, tale
Antonio Cattaneo, fece fucilare ai bordi di una fossa comune 80 siciliani
catturati. Orrore e vergogna, e utile amaro insegnamento storico: non è
strano che i generali italiani (o meglio piemontesi), provati soprattutto
nella repressione poliziesca e coloniale del Meridione, si siano rivelati
poi indecorosamente disonorevoli nelle guerre esterne e nazionali, fino
all'8 Settembre.
Così, non è strano che il malcostume oggi a torto definito «borbonico»
abbia guastato e marcito la questione meridionale. Crispi, il patriota,
promosse l'esproprio dei beni ecclesiastici in Sicilia e poi comprò per
poche lire sotto falso nome (quello del nipote, Calogero Palamenghi) il
latifondo Cannatello della diocesi di Girgenti: caso originario di
conflitto d'interessi e interesse privato in atti d'ufficio? Felice Pinna,
questore savoiardo a Palermo nel 1866, si fece un dovere di «tenere in
carcere persone prosciolte o assolte»: esempio originario di come avrebbe
funzionato in Italia la giustizia?
Né l'errore pare sia stato mai emendato, dai padri della patria italiana
antifascista. Parri dichiarò il Nord italiano «democraticamente superiore»
al Sud. Nenni bollò l'impulso indipendentista siciliano «un movimento
vandeano sostenuto dalle vecchie forze fasciste», e Togliatti lo accusò
semplicemente e puramente di «fascismo». La storia revisionista può non
essere tutta la verità. Ma è una brutta verità.
Maurizio Blondet
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