Giovedì 29 agosto 2002
Un gruppo di genovesi chiede un enorme risarcimentoSavoia: 70 miliardi per entrareA tanto ammonterebbero i danni fatti dai loro avi a GenovaIl Movimento degli indipendentisti liguri ha chiesto a Vittorio Emanuele di risarcire i danni, calcolati in 70 miliardi di vecchie lire, causati dal sacco di Genova ordinato dai Savoia nel 1849di Gabriele Villa Genova, agosto
ornino pure i Savoia in Italia, ma prima chiedano scusa ai genovesi e paghino i danni che Vittorio Emanuele II ha fatto alla nostra città». Questo è il giudizio che un gruppo di genovesi appartenenti al Movimento indipendentista ligure ha dato all'indomani della notizia della fine dell'esilio degli eredi maschi di Casa Savoia. La questione sollevata dal Movimento non è cosa da poco, né si tratta di un semplice principio storico risolvibile con un atto di scuse formali. I danni sono quelli provocati dalle truppe del generale La Marmora che, su ordine di Vittorio Emanuele II, nel 1849 misero a ferro e fuoco Genova colpevole di essere insorta per chiedere l'indipendenza. All'epoca i danni causati da 36 ore di feroce saccheggio furono calcolati in 721.273,87 lire. Aggiornati al valore attuale e sommati a un interesse del cinque per cento per 153 anni, fanno la cifra record di 70 miliardi e 876 milioni di vecchie lire, circa 36 milioni e 604 mila euro. Questa è l'astronomica cifra che, secondo i componenti del Movimento, Vittorio Emanuele e suo figlio Emanuele Filiberto dovrebbero versare ai genovesi. "A parziale rimborso delle gravissime sofferenze patite dalla cittadinanza genovese". I bersaglieri di re Vittorio Emanuele Ma vediamo di ricostruire dall'inizio questa vicenda storica che ancora oggi viene ricordata con dolore dai genovesi e che è stata riportata alla luce dal Mil, il Movimento degli indipendentisti liguri. Tutto ebbe inizio all'indomani del 23 marzo 1849. Dopo la sconfitta di Novara e la conseguente abdicazione di Carlo Alberto in favore di Vittorio Emanuele II i genovesi insorsero per riprendersi l'indipendenza. Ma, su ordine del re, il generale Alfonso La Marmora, al comando di almeno trentamila soldati, condusse una feroce repressione contro il popolo in rivolta. Genova fu saccheggiata per 36 ore. Senza sosta né pietà. Persino l'ospedale di Pammattone fu colpito e, solo in quell'assurdo assalto, morirono duecento ricoverati. Il re approvò e scrisse addirittura una lettera di congratulazioni a La Marmora per il suo intervento, definendo tra l'altro i genovesi: "vile e infetta razza di canaglie". Il presidente del Mil, Vincenzo Matteucci, sull'argomento è piuttosto categorico: «La repressione della rivolta di Genova dell'aprile del 1849 al pari dell'insurrezione anti-sabauda di Torino nel 1864, del massacro garibaldino a Bronte e di tanti altri episodi non ha mai guadagnato l'attenzione degli storici. L'antefatto di questa tragedia è semplice: i genovesi non avevano mai accettato la forzata annessione al regno di Sardegna, sancita dal congresso di Vienna, un'annessione che non fu mai ratificata nemmeno da quei plebisciti-farsa, avvenuti nel 1859 in altre regioni, cosicché oggi la Repubblica di Genova è da considerarsi, per il diritto internazionale, sempre sovrana, e sono sempre rimasti fedeli alla loro Repubblica». Che significa tutto ciò? Significa secondo il presidente che almeno l'interpretazione di alcuni fatti va rivista: «Episodi come i moti carbonari del 1821, considerati dalla storiografia tradizionale ispirati dall'irredentismo italiano, sono invece da considerarsi alla luce del mai sopito indipendentismo ligure. L'ostilità dei genovesi verso l'occupazione sabauda raggiunse l'apice dopo il 1848. Nell'aprile del 1849, dopo la sconfitta subita dai piemontesi a Novara da parte del generale austriaco Radetzky, il momento sembrò propizio per sancire nuovamente l'indipendenza di Genova, una sollevazione della Guardia nazionale (composta da residenti) appoggiata dalla popolazione segnò l'inizio della rivolta. Fu allora che il re di Sardegna Vittorio Emanuele II, ordinò al generale La Marmora, a capo di 30.000 bersaglieri, di reprimere nel sangue l'insurrezione. Solo il bombardamento di diversi giorni, che fece centinaia di morti tra la popolazione civile, schiacciò l'eroismo dei genovesi. Riconquistata la città, i bersaglieri di La Marmora si abbandonarono a sfrenate violenze sulla popolazione, senza risparmiare donne e bambini».
Uno degli eroi di quella rivolta è quell'Alessandro De Stefanis, studente savonese, ricordato da un monumento visibile nella chiesa di Oregina. Ma ciò che è ancora più sconcertante è che i resti delle vittime sono oggi sepolti, senza peraltro nessuna 1apide o segno di identificazione, nella chiesa dei Cappuccini e a pochi metri di distanza, in Piazza Corvetto, per una crudele beffa, gli "occupanti italiani", come il Mil li ha definiti, hanno edificato un monumento equestre a Vittorio Emanuele, il sovrano "massacratore" del 1849. Uno "scandalo" dapprima denunciato solo da singole personalità del mondo intellettuale ligure, come il professor Franco Bampi, segretario del Mil, o il segretario dell'Arge, l'Associazione Repubblica di Genova, Matteucci, affiancato da membri del Movimento indipendentista ligure ma poi anche dalle forze politiche autonomiste (recentemente Francesco Bruzzone, capogruppo della Lega Nord in Regione, ha impegnato la giunta a ricordare adeguatamente i patrioti del 1849). A chi gli rimprovera di riattizzare inutili polemiche, il professor Bampi replica: «Non sono cose vecchie o idee bizzarre, come sostengono i cinici, ma memorie storiche da custodire gelosamente perché gran parte dei problemi dell'Italia del 2000 hanno la loro origine nel carattere brutale che ebbe il processo di unificazione nazionale, realizzato col ferro e col fuoco contro la volontà dei popoli che occupavano l'attuale Stato italiano, fossero essi i "cafoni" calabresi fucilati come briganti dai carabinieri sabaudi o i contadini padani nelle cui cascine irrompevano i gendarmi per prelevare la tassa sul macinato. Chi non conosce il passato è destinato a riviverlo, disse un filosofo, e noi abbiamo il dovere di conoscere la nostra storia, i suoi episodi gloriosi e quelli tragici».
In buona sostanza, alla vigilia del tanto sbandierato e ora si presume anche trionfale rientro dei Savoia, siamo dunque di fronte a una dichiarata, apertissima sfida. Che gli indipendentisti liguri sintetizzano così: «Se i Savoia davvero vogliono rimettere piede in Italia, chiedano innanzitutto scusa pubblicamente ai genovesi e poi paghino i danni». E i danni del Sacco di Genova vennero valutati a suo tempo in 721.273,87 lire che, aggiornati al valore di oggi e integrati dall'interesse del cinque per cento per 153 anni, fanno appunto 70.876 miliardi di lire. La conversione in euro è l'ultimo dei problemi per il Mil, che ha avviato una raccolta di firme perché Bruxelles dica ufficialmente la sua sull'entità del risarcimento e perché gli enti locali si impegnino a trascinare i Savoia in tribunale per ottenere quel denaro. In altre parole per il Movimento indipendentista ligure la petizione altro non è che una legittima rivincita. «I Savoia», afferma il presidente del Mil, Vincenzo Matteucci «non pensino di spuntarla facilmente: sono gli eredi di quel Vittorio Emanuele Il che tanti lutti causò ai genovesi, e agli eredi assieme al patrimonio vanno i debiti dei propri avi». Certo sarebbe anche apprezzabile, aggiungono gli indipendentisti, se «i Savoia riconoscessero pubblicamente gli errori del nonno e rinunciassero a considerarsi dinastia sabauda». In entrambi i casi sembra assai improbabile che Vittorio Emanuele vorrà acconsentire a tali richieste. Comunque vada a finire, in ogni caso, per difendere la memoria del "Sacco" e dei patrioti caduti, la battaglia sarà determinata. E sostenuta anche a suon di fischi, promettono al Mil: «Sotto le finestre di quei nobili genovesi che, magari, avranno l'ardire di invitare nelle loro ville gli eredi dei Savoia». Gabriele Villa
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