GLI INEDITI
Ignazio detto il Rosso e la bella Isolina
di ERlKA DELLACASA
Dove sono il facchino Ignazio Pittaluga detto il Rosso, l'ombrellaio Giovanni
Prina, responsabile della Commissione incendi, il benestante mediatore Virgilio e
il povero muratore Figallo, i1 sarto Rattazzi che solo difese la Lanterna, e il
caravana bergamasco Giò Gamba, 77 anni, detto il Cinciarello, ferito mentre trasportava
un cannone all'Acquaverde? Molti di loro dormono sulla collina di Oregina, nella
Chiesa dei Cappuccini (nota), in una fossa comune che non è
una sepoltura sbrigativa come potrebbe sembrare, perché in quegli anni ai poveracci,
quelli che spiravano senza mezzi all'Ospedale di Pammattone, era riservata la sepoltura
comune e ordinaria alla Foce, non certo un posto nell'ombra di un santuario, o sulle
alture della città. Sono tutti protagonisti, questi, protagonisti oscuri della
"Rivoluzione" genovese del 1849, un'insurrezione quasi dimenticata nei testi di
storia, e riscoperta dai quotidiani per il sommarsi di episodi che, intrecciandosi,
hanno creato una trama, quindi una nuova storia. I bersaglieri sono venuti a
Genova per il 42° Raduno dell'Arma, nel Paese si discute un po' con criterio un
po' del tutto a sproposito di federalismo, la parola autonomia risveglia nuovi
echi, il Carroccio e Pontida sono diventati lessico della politica di oggi, e la
Repubblica ligure dichiarata da un governo provvisorio nel 1849 fa brillare
gli occhi alla Lega. Anche perché proprio i bersaglieri guidati da Alessandro
La Marmora (nota), vennero a Genova, in quell'aprile di
150 anni fa e stroncarono la resistenza dei "ribelli". In realtà i moti di Genova
erano legati a una voce che parlava di un accordo fra i Savoia e l'Austria per
concedere a quest'ultima una franchigia sul porto, ed erano alimentati dal desiderio
di continuare la guerra contro l'Austriaco, respingendo l'armistizio.
Ma al di là della polemica, del tentativo di sventolare bandiere improprie in
quanto "retroattive" su quell'insurrezione, l'occasione può essere quella di ricordare
qualcuno di quei sepolti nella Chiesa dei Cappuccini, le loro vite da carruggio e da
angiporto, da città vecchia, nella maggior parte dei casi.
Ha ricostruito tutto questo - con un minuziosissimo lavoro di archivio, raccogliendo
atti di morte delle parrocchie, atti di ricovero dell'Ospedale, dichiarazioni ai
giudici e suppliche alle Commissioni municipali, tracce minutissime come una nota
spese e una segnalazione di polizia - Luigi Grasso. Il suo lavoro è in gran parte
pubblicato dall'Università di Genova in una miscellanea di storia ligure. «Chi
fossero, quali sentimenti provassero in quei giorni, cosa veramente li mosse, cosa
sia stato della loro vita, si può intuire e ricostruire, ma non accertare con
precisione» dice Grasso riferendosi agli insorti, e pazientemente va sulle tracce
di quei 150 morti (sul numero c'è incertezza), dei partecipanti e dei feriti. Da
questa folla, alcuni volti escono più netti.
Il calzolaio di Vico Vegetti, Giacomo Burlando, due bambini, 38 anni la moglie
Emilia è morta qualche anno prima: lui sogna per i bambini un futuro migliore,
esce di casa armato e non ritorna più. Suo padre, spaccalegna, 74 anni, abitante in
Vico Vegetti 948, non può che scrivere al Municipio e «chiede che gli diano una
piazza nel Pio Istituto dei figli orfani», un letto per quei due bambini. E quale
poteva essere il nome del ragazzo di colore che morì nell'angiporto, in uno scontro
con i carabinieri? L'episodio è raccontato da uno degli insorti Antonio Giuané, in
una deposizione al magistrato: «Uno sconosciuto mi si avvicina e mi dice: da uno
stanzone nell'interno della darsena si vede tutto il combattimento, i piemontesi
hanno ucciso un nero. Andai con costui e infatti osservando da un'inferriata vidi il
nero disteso a terra in forma di crocifisso. Io stetti in questo luogo di dolore
fino a tanto che durò il combattimento». Fu forse la notizia di questo "nero" morto
a11a darsena il primo aprile all'origine della voce infondata sull'uccisione a
Genova del "moro di Garibaldi". Nei ricordi anche un bersagliere, Alessio Pasini,
di Mantova, che cercò di portare soccorso alla popolazione di San Teodoro quando
ci furono degli eccessi da parte delle truppe, salvò diverse persone inermi. La
società dei vapori Rubattino in segno di riconoscenza consegnò al bersagliere una
daga d'onore. Furono giorni di eccessi. Ci fu, anche, un linciaggio, vittima un
maggiore dei carabinieri, Angelo Ceppi.
Ma ancora. I religiosi. Molti se ne tennero fuori. Altri no. Il gruppo di San
Donato, ad esempio: Bartolomeo Bottaro e il parroco Piaggio furono visti «con il
crocifisso in una mano e lo schioppo nell'altra». E frate Anastasio da Genova è
descritto come repubblicano epistoleo nell'orto del convento allo Sperone. Fra i
feriti un monaco benedettino, Agostino Foppiano. Tutti motivi per indurre La Marmora
a scrivere il 13 aprile al ministero degli Interni: «Ella sa certamente come in
generale il clero di Genova siasi mal condotto in questi ultimi disgraziati
avvenimenti».
Le donne. Le donne soprattutto rese vedove, cariche di bambini, supplici davanti
alla Commissione dei soccorsi del Municipio per ottenere un sussidio e poter sperare
di continuare a sopravvivere nella città vecchia. Ma anche Luisa (Isolina) Battistotti
Sassi, compagna di Urbani, che dopo le Cinque giornate di Milano venne a Genova con
il falso nome di Carolina Taxis e combatté sulle barricate. Uno storico - forse
perché la donna aveva lasciato il marito e viveva con un altro uomo - la definisce
cortigiana ma ne tesse le lodi «e qui l'istoria rammenterà con orgoglio, benché
di cortigiana, il nome di I. B. bella giovane donna le cui mollezze riscattava
ampiamente generoso sentire e forte amor cittadino. Fremente d'amor bellicoso
lanciavansi per prima in quel vasto palagio (Palazzo Doria ndr) a rintracciare il
nemico e del suo più che maschio ardire meravigliò lo stesso Avezzana. Ne fu la sola
donna costei che sotto panni virili difendesse in quel giorno la libertà della patria».
Morì, forse, anni dopo in America.
Due importanti inesattezze sono presenti in questo
articolo:
- La Chiesa dei Cappuccini, dove sono conservati in fossa comune i
resti dei morti causati dal bombardamento dell'Ospedale di Pammatone
da parte di La Marmora, è la Chiesa di Padre Santo in Piazza dei
Cappuccini. In Oregina vi è la Chiesa di Nostra Signora di Loreto,
retta dai Frati Minori Francescani, dove si trova il monumento funebre
di Alessandro De Stefanis.
- Chi guidava i bersaglieri a Genova non era Alessandro La Marmora,
fondatore del corpo, ma il fratello Alfonso.
|