LO STORICO
1849: ecco cosa bolliva in pentola
di RENATO MONTELEONE
Era la mattina del 3 aprile 1849 quando il generale La Marmora si affacciò sulle
alture di Coronata alla testa di due compagnie di bersaglieri e di uno squadrone di
cavalleria. Di lì cominciò a attaccare i fortini e poi la cinta muraria di Genova,
in stato insurrezionale, avanzando coi suoi uomini a passo di carica e con fanfara
squillante, come poi entrò nella tradizione di quel corpo di militari. Il giorno
dopo intimò alla città la resa incondizionata e, non trovando pronta risposta, il
5 aprile, alle 5,30 antimeridiane, raggiunto da rubusti rinforzi, la cannoneggiò,
l'attaccò e l'occupò dopo 12 ore di difficile confronto con la guerriglia urbana.
I genovesi mantennero un cupo risentimento di quando l'11 aprile, a conclusione
di quell'impresa non proprio eroica, le truppe sfilarono davanti al generale La
Marmora nella piazza Acquaverde, tutti gli abitanti si chiusero in casa, porte e
finestre sprangate, deserte le vie, che pareva di entrare in una città violentata da
milizie straniere di barbariche usanze.
Cos'era successo? Come si giunse a questo punto di ostilità e di livore tra
cittadini dello stesso Paese? Su questo sciagurato episodio giocarono molti e
complicati fattori e sarebbe semplicistico spiegarlo soltanto come una manifestazione
di separatismo regionalistico, benché questo sia stato, con tutta evidenza, un forte
motivo scatenante.
Il fatto è che da tempo c'era un discreto spessore di ruggine nei rapporti tra
Liguria e Piemonte. A oltre trent'anni dalla loro unificazione nel Regno Sardo,
Genova era ancora considerata dai piemontesi una città "a rischio", come oggi si
dice.
Lì l'opinione pubblica era in ebollizione. Il partito predominante dei liberali
moderati sosteneva scontri durissimi coi conservatori e coi demorepubblicani che,
per ragioni opposte, si osteggiavano, sembrando ai primi troppo riformatori, da
turbare l'ordine sociale, e ai secondi troppo poco e inoltre troppo disposti a
compromettersi con la monarchia sabauda.
La rivoluzione in Europa
Poi, di recente le tensioni si erano acuite. Durante il cosiddetto "biennio
riformista", tra il 1846 e il 1847, mentre per la pressione o la paura dei moti
popolari i sovrani italiani facevano a gara nel concedere riforme e costituzioni, ci
volle del bello e del buono per indurre quello spilungone di Carlo Alberto a vincere
i suoi proverbiali tentennamenti per non farsi scavalcare addirittura dal Papa nel
gratificare i suoi sudditi di riforme moderne e di un minimo di decoroso ordinamento
statutario.
Ma, a Genova, i soli a rallegrarsene furono i moderati, gli altri mugugnarono. I
conservatori ci vedevano motivo di scandalo, i repubblicani vi riscoprivano tutte
le riserve antidemocratiche del modello costituzionale francese de1 1830, su cui
quelle carte erano state praticamente ricalcate.
Infine, a rimettere tutto in gioco sopravvenne la rivoluzione che dall'Europa si
propagò all'Italia, nel Lombardo-Veneto, nei Ducati centrali. A quel punto, le forze
politiche genovesi (salvo un'ostinata minoranza austriacante) si affaccendarono
compattamente per trascinare il Regno Sardo in guerra con l'Austria, in aiuto - si
diceva - ai fratelli insorti nelle province padane di quell'impero.
Fu proprio quella guerra, della cui infelice condotta e degli esiti ancor più
infelici tutto si sà, a far precipitare a Genova tutte le storiche ragioni
dell'animosità antipiemontese.
Non era solo per una smania particolaristica di secessione, ma anche per
la
ruvidezza del programma fusionista nei confronti della Lombardia; per il tracotante
egoismo della politica "piemontese" ("la politica del carciofo", chi non lo sa?), a
cui i democratici genovesi contrapponevano l'alternativa di un programma "nazionale";
per il fallimento dell'idea di una guerra federale, cementata dall'adesione paritaria
di tutti gli stati italiani e del volontariato popolare; infine per la pochezza delle
riforme che non modernizzavano la politica amministrativa, finanziaria e commerciale
dello Stato
Una carica separatista
Per il patriottismo antiaustriaco genovese l'armistizio di Salasco che pose fine
alla prima fase della guerra, dopo la sconfitta di Custoza, fu già una doccia gelida
che fece gridare al tradimento, all'inettltudine dei comandi militari, alla
superiorità della guerra di popolo sulla guerra regia.
Ci furono grandi agitazioni per riportare il Paese a combattere l'Austria. La
sconfitta militare aveva messo in crisi il partito moderato genovese e ora che i
demorepubblicani avevano il sopravvento trascinarono Genova in un appassionato
braccio di ferro coi governi che si succedettero a Torino in quei frangenti.
Furono loro a imprimere nel movimento popolare una carica separatista fortemente
polemica contro la monarchia, specie da quando, la sera del 26 marzo, giunse la
notizia della nuova, estrema disfatta di Novara e dell'abdicazione di Carlo Alberto,
che si dileguò mestamente verso le nebbie di Oporto.
Allora Genova insorse, costernata e indignata per quel "vergognoso armistizio".
Si lanciò il programma Repubblica e Costituente, ma si proclamò anche che non si
voleva fare del regionalismo, ma costruire un'Italia riscattata dal dominio austriaco
e si indicavano il federalismo la garanzia delle libertà.
Nei primi giorni di aprile fu eletto un triunvirato, i rivoltosi cacciarono la
guarnigione, assalirono i forti di Castelletto e San Giorgio, che simboleggiavano
l'egemonia piemontese, conquistarono il Palazzo Ducale e la Darsena e i fortini e
la cinta e l'Arsenale di terra e di mare, e alla fine costituirono un governo
provvisorio della Liguria.
Tutto questo fu quel che La Marmora venne a reprimere con i suoi bersaglieri,
scendendo dalle alture di Coronata. L'ordine fu ristabilito, a Genova come nel
resto d'Italia e in Europa, grazie a quella gigantesca operazione di polizia
internazionale che fu la "seconda restaurazione".
Ma la storia continuava il suo corso. Di li a poco il Regno Sardo venne coinvolto
nel grande respiro della politica continentale, dove episodi insurrezionali come
quello genovese divennero sempre meno probabili, o sempre più inattuali nelle loro
motivazioni.
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