Maggio-aprile
del 1849
Saccheggiata la città in rivolta
L'assedio di La Marmora
L'armistizio con Bixio
di PIERO PASTORINO
LA SCONFITTA dei piemontesi a Novara contro l'Austria ebbe riflessi devastanti
anche a Genova. La notizia che la guerra era persa e l'altra riguardante l'abdicazione
di Carlo Alberto giunsero nel capoluogo ligure il 27 marzo 1849. Per i democratici
era la prova del tradimento dei conservatori e dei reazionari torinesi che vedevano
liquidata, con quella "finta guerra", la rivoluzione nazionale. Ma la colpa del
disastro si rovesciava anche sui democratici, che l'avrebbero favorito con l'azione
disgregatrice della propaganda repubblicana. A Genova gli umori si accendono.
Le autorità governative autorizzano il comandante del Presidio a mettere la città
in stato di assedio. La folla reagisce e si dirige a Palazzo Tursi, sede della
Guardia nazionale. Qui i democratici del "Circolo Italiano" proclamano un comitato
di difesa. Viene letto pubblicamente un messaggio, che era stato intercettato,
del comandante del Presidio, generale De Asarta. contenente l'invito al generale
Alfonso La Marmora di marciare sulla città con la sua divisione. Il comandante della
Guardia nazionale, Giuseppe Avezzana, si schiera col comitato di difesa. Si teme,
in particolare, che gli austriaci si dirigano verso Genova, roccaforte democratica
dello Stato, col tacito consenso dell'autorità politica e dell'esercito. Anche i
ceti sociali più bassi entrano in scena, chiedendo armi come già nel 1746. Si può
anzi dire, come avverrà quasi cent'anni dopo, che l'insurrezione si tingerà di
toni a carattere più popolare che borghese. Caso curioso, i moti genovesi - dal 1° al
10 aprile - si svolgeranno nella Settimana Santa così come accadde 50 anni fa
alla Benedicta.
Il ricercatore Luigi Grasso, autore di un saggio sulla Comune di Genova del
1849, non è propenso a credere, a differenza del professor Giovanni Rebora, a
sentimenti visceralmente antipiemontesi. Sono opinioni che si lasciano agli
storici. Stando ai fatti, il 30 marzo trentamila persone raggiungono piazza
Acquaverde dove si e asserragliato il Presidio militare, ma lo scontro è rinviato
grazie ai buoni uffici del comitato di difesa, che ha eletto un triumvirato
formato da Avezzana, nativo di Chieri, dall'avvocato David Morchio e dal deputato
Costantino Reta, appena giunto da Torino. Il primo aprile, domenica delle Palme,
la città insorge. Tutti sono armati, anche le donne e parecchi ragazzi, con
fucili, pistole, sciabole e altre armi bianche. Grande parte della folla si
avvicina all'arsenale da San Tommaso, dalla salita della Visitazione, da via Pre;
altri dirigono a Palazzo Ducale, dove si sono insediati i triumviri, perché la
nuova dirigenza politica della città rompa ogni indugio. Avezzana, deposti i
gradi, si pone a cavallo alla testa degli insorti. All'Acquaverde, carabinieri
e soldati del reggimento Guardia aprono il fuoco: sette i1lsorti restano sul
terreno; altri, rifugiatisi dietro il monumento di Colombo, vengono snidati e
finiti con colpi alla nuca. Gli uomini del Presidio chiedono comunque la resa,
fatta salva la clausola politica: «Genova rimarrà inalterabilmente unita al
Piemonte».
Purtroppo non è finita. Il 4 aprile il generale Alfonso La Marmora (col
fratello Alessandro, fondatore dei bersaglieri) si presenta con la sua
divisione nei pressi della città e nello stesso pomeriggio, conquistato il forte
delle Tenaglie, da Granarolo piomba sulla rocca della Lanterna. Gl'insorti,
dopo un primo sbandamento, contrastano le truppe regie ai piedi della salita
degli Angeli e alla Chiappella. Ma le artiglierie obbligano alla ritirata su
una linea di difesa a San Benedetto. La popolazione di San Teodoro subirà le
maggiori violenze e saccheggi. Palazzo Doria sarà perso, riconquistato e perso
nuovamente. II 5 aprile la città sarà bersaglio di un bombardamento "dimostrativo".
La ribellione di Genova scuote i patrioti: il 6 aprile giungono da Roma, via
mare, Mameli e Bixio, per tentare la via dell'armistizio. Questo si concreterà
il 10 aprile, ma stupri e ruberie continueranno ancora un mese.
Il movimento di piazza non fu condotto solo da genovesi - in massima parte
portuali, artigiani, con l'apporto di uomini di studio - ma vi aderirono esuli
lombardi, polacchi e quanti in Genova avevano trovato temporaneo rifugio. Rimase
difficile stabilire il numero delle vittime: furono senz'altro un centinaio tra
i rivoltosi; circa la metà tra i militari. Molte salme furono seppellite nella
chiesa dei Cappuccini, quella del Padre Santo, tanto per intenderci; altre nel
cimitero che si trovava alla Foce.
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Foto
ingiallita dal tempo: in piazza della Vittoria, al passo, con la mitica
Fanfara in testa
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Motivi politici misero la sordina a questo episodio sanguinoso del Risorgimento.
Anche i repubblicani si mostrarono restii a calcare la mano. Nel 1949,lo stesso
sindaco Gelasio Adamoli fu più propenso alla pacificazione. Unico nome che ebbe
una via cittadina intitolata fu Alessandro De Stefanis, ma per una medaglia d'oro
conquistata su altro campo di battaglia. A parere di Grasso, sarebbe almeno il caso
di rendere onore postumo alle molte altre vittime di quelle tragiche giornate. La
qualcosa non pare del resto improponibile, anche a distanza ai cento anni.
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