Il Generale Alessandro Lamarmora che conducea que' bersaglieri, dicesi comandasse ai suoi di cacciare dai veroni quanti loro occorrevano. L'inumano comando però non venne eseguito, e solo ad un povero vecchio che chiedeva pietà, un officiale piantava una pugnalata nel cuore dicendo: - Ecco la pietà che tu meriti, genovese da forca - condotti poscia i prigioni al cospetto di Alessandro Lamarmora questi per la seconda volta volea che si fucilasse quella canaglia, e un giovinetto lombardo che primo loro occorse alle mani s'ebbe rotta da cinque palle la fronte. Intrepidi aspettavano gli altri il comandato supplizio, ma peggiori strazii che la morte non era, furono destinati a subire. Sospesa la loro condanna si tradussero innanzi al Generale supremo. In quel fiero tragitto i soldati li percuotevano a gara con pugni, ceffate, non risparmiando loro ogni modo di contumelie. Il generale Alfonso Lamarmora dicendogli ladri ed assassini minacciava alla sua volta di sterminarli, né fu sozzo scherno, che il suo Stato Maggiore non adoperasse per invilire que' prodi che non sarebbero al certo fuggiti in faccia al tedesco. Spogliati finalmente d'ogni lor cosa, si gittavano in una lurida carcere, e alcuni d'essi sanguinavano per gravi ferite toccate dopo che s'erano resi prigioni.

Tratto da I moti genovesi del '49, Erga, Genova, 1967, pag.71-74



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