Ricorre in questi giorni l'anniversario del moto insurrezionale di Genova del
marzo-aprile 1849, episodio drammatico, di cui però manca una piena "visibilità"
nei testi di storia.
La conseguenza è che tanti genovesi non ne conoscono neppure l'esistenza. Numerosi
avvenimenti e personaggi sono oggetto di celebrazioni, anche in questo momento e
nella nostra città.
Io non ho di certo la presunzione di illustrare in poche righe quello che fu forse
l'ultimo disperato atto di resistenza dell'antica repubblica.
Vorrei, con questa lettera, solo tentare di sollevare un poco la "cortina".
L'insurrezione fu "una voce fuori dal coro" risorgimentale in quanto ebbe
i connotati popolari, democratici ed antisabaudi. Per tale ragione cadde quasi
nell'oblio, solo parzialmente rimosso dopo la caduta della monarchia.
A quei tempi Genova, con circa 230 mila abitanti, era la più grande città del
regno di Sardegna e la terza d'Italia dopo Napoli e Milano: il 23 marzo 1849 Carlo
Alberto, dopo la sconfitta di Novara, aveva abdicato in favore del figlio Vittorio
Emanuele II.
La nostra città era un grande laboratorio d'idee, come aveva ripetutamente
dimostrato con le manifestazioni del precedente anno 1848, ed il governo di Torino
progettava l'azione repressiva: il governatore, gen. Giacomo Durando, era dotato di
un decreto di stato d'assedio "in bianco". Di contro non si tentava nulla
per limitare il disagio morale e materiale della popolazione genovese.
L'attività portuale languiva e il governo favoriva la decrepita aristocrazia
rurale.
La rivolta fu totale: a differenza dei celebrati moti carbonari, che ebbero poche
decine di protagonisti, a Genova nel 1849 si rivoltò un popolo intero. Fu sopraffatto
dall'intervento di 30mila bersaglieri di La Marmora, che non esitò a cannoneggiare i
quartieri più popolosi, coadiuvato dalla flotta inglese che sparava dal mare.
Fu umiliato dai saccheggi e violenze operati dai soldati sabaudi dopo la resa. Il
numero dei morti non fu mai accertato. Significativa è infine la
lettera dell'8 aprile 1849 di Vittorio Emanuele II
a La Marmora, quando ormai la resistenza degli insorti era stata piegata, scritta
nell'unica lingua che conosceva.
Di seguito riporto una stralcio che si commenta da solo: "Mon cher général,
Je vous ai confié à vous l'affaire de Génes parceque vous etes un brave. Vous ne
pouviez mieux faire et vous meritez toutes éspèces de compliments. J'espère (...)
qu'elle (Genova) apprenne enfin une fois à aimer les honnetes gens qui travaillent
pour son bonheur et à hair cette vile et infecte race de canailles à la quelle elle
se con fiait et dans la quelle sacrifiant tout sentiment de fidelité, tout sentiment
d'honneur elle prétait tout son espoir (...) Votre très affectionné Victor".
Parole queste che non facevano certo trasparire la sabauda capacità unificatrice
delle genti italiane, come ebbero ad accorgersene di lì a poco i poveri
"briganti" meridionali.
Chi volesse maggiori particolari può richiedermeli per posta elettronica.
Alfonso Grasso
grassalf@iol.it
Genova
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