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Il comportamento di Manfredo Fanti

nelle pagine del diario dell'anonimo di Marsiglia (1850)

(...) E qui cade in acconcio dir de' Lombardi, e del modo con cui vennero impediti a dar mano alla protesta di Genova.

Verso la fin del Marzo (26 - 27), la divisione lombarda capitanata dal general Fanti, si facea partir da Alessandria per poter più agevolmente consegnare quel baluardo ai tedeschi; e quei prodi soldati si concentravano fra Tortona e Voghera per indi muover su Genova e portarsi in Toscana od in Romagna ad onta che il Governo degli armistizii, avesse lor destinato altre piazze nel cuore del Piemonte. In que' giorni stessi il generale Avezzana, secondando il moto del popolo, spedia loro inviti e messaggi, onde accorressero a difendere sovra i nostri Appennini il vessillo della Indipendenza Italiana.

La divisione lombarda forte di quei giorni di 4 reggimenti di fanteria, due battaglioni di bersaglieri, 28 pezzi di famosa artiglieria, 700 cavalli, corpo del Genio e quanto d'altro si addice a ben ordinata milizia, sommava a meglio di novemila combattenti, che caldi di carità nazionale anelavano l'istante di misurarsi col comune oppressore. Non è dunque a dire se accogliessero con manifesti segni di gioia l'invito dei Genovesi, ed attendessero impazienti il consenso del generale, cui non credevano ancora capace di attraversare i loro disegni, e perdere tanta gioventù bellicosa. Solo alcuni capi dei corpi antiveggendo la triste sorte che sarebbe toccata a quei prodi, decisero di partire per Genova postergando gli ordini del generale che con sottili accorgimenti negavasi di assecondare l'ardor dei soldati. Perciò nella notte del 29, lasciata Tortona, ad onta delle dirotte pioggie, alcune compagnie giunsero al mattino in Serravalle, non dubitando che il grosso dei corpi le avrebbero quanto prima raggiunte. Fu l'esempio seguito da quei molti lombardi, che chiamati dalla leva in massa, avevano formato deposito in Alessandria, e che ardeano di dividere i nostri pericoli, e salvare l'onore nazionale.

In quel giorno medesimo il Fanti portandosi da Alessandria a Tortona imbattevasi in numerosi drappelli de' suoi, che movevano a raggiungere i loro commilitoni, e prevedendo che sarebbero ormai vani i comandi a stornare que' valorosi dal loro proposito, tentò le vie della frode. Perciò spedì a Tortona ordini espressi a quei già partiti per Serravalle, che lo raggiunsero e tanto seppe adescarli con infinite parole, e suader loro, che non dovevano mettersi in aperte ostilità col Governo, che essi promisero non muover piede, finché non tornasse da Torino una loro deputazione. Così volsero alcuni giorni, nel corso de' quali poté il generale Lamarmora lasciarsi i Lombardi alle spalle, e calare su Genova, i di cui cittadini, certi della venuta de' corpi lombardi, (parte dei quali era stata veduta in Serravalle), davano cominciamento alla loro protesta, che bastò perchè Genova più non partecipi alla viltà del secondo armistizio.

Giunta a Torino la deputazione lombarda, di cui facea parte il prode Manara, comandante i Bersaglieri, che perì vittima in Roma dalle palle francesi, presentavasi al Ministro di Guerra e al generale Sczarnoscki, che ancora tanta nube di mistero circonda, e non senza gravi difficoltà otteneano di recarsi in Toscana per la via di Bobbio, via, a dir del Ministro, carreggiabile, ed atta al transito delle artiglierie, non che dei cavalli.

Partiano dunque i corpi lombardi nella certezza di giungere in Genova per quella medesima via: ma appena addentraronsi in quelle giogaie videro non già una camminata di palagio, come fu loro dal Ministro dipinta, ma insuperabili roccie non segnate da alcun sentiero, e monti coperti di neve, per cui furono costretti ad abbandonare i loro cannoni, le lor munizioni, proviande ed ogni arnese di guerra. E non fu senza gravissimi stenti, che giunsero a superare fra il difetto dei viveri quelle inospiti ertezze, dalle cui cime spesso ruinavano cavalli e cavalieri in profondissimi abissi.

Finalmente, dal 7 al 10 di aprile, laceri, scalzi e molli dalle pioggie continue, giunsero al litorale di Chiavari, e una vana speranza ancora li lusingava di poter penetrare nella bloccata Città. Era allora in quella rada di Chiavari il "Giglio", e non lungi su quelle acque, altri battelli a vapore spediti dal Governo Provvisorio a loro disposizione, tal che quelle milizie, che prime giunsero al lido, voleano ancor traballanti partire per Genova. E l'avrebbero osato, se Fanti agremente non avesse combattuto questo loro magnanimo intendimento dicendo: che egli, generale piemontese, non avrebbe mai portato l'armi contro il Piemonte.

Così Genova vedovata del loro valido aiuto cadeva, ed il Governo Sardo attestava la sua riconoscenza sì al generale che ai soldati lombardi, cacciando indi a non molto in carcere il primo, e sciogliendo i secondi malgrado la ferma di tre anni loro giurata.

Essendomi imposto l'ufficio del narratore, non commenterò questi fatti. Saprà valutarli il senno dei leggitori.

Tratto da I moti genovesi del '49, Erga, Genova, 1967, p.97-101

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