Lo scenario
Le drammatiche giornate di Genova dal 30 marzo al 9 aprile 1849 sono
sparite dai testi ufficiali di storia e hanno riscosso scarso interesse
anche fra gli studiosi. La città non era insorta contro il proprio re -
come ipocritamente si è voluto far credere - si era opposta alla pace
vergognosa che riconsegnava l'Italia Settentrionale all'egemonia
dell'Austria.
Rimasta repubblicana anche dopo l'annessione forzata al Piemonte,
decretata nel 1815 dal Congresso di Vienna, Genova aveva molte ragioni per
diffidare della politica del governo di Torino. In particolare la
borghesia che andava affermandosi avversava la politica protezionistica di
Torino, a difesa dei privilegi secolari dell'aristocrazia terriera. Genova,
città aperta ai traffici sul mare, guardava piuttosto alla Lombardia come
retroterra naturale.
La rinuncia di Carlo Alberto a condurre una guerra di popolo contro
l'Austria venne quindi vissuta come un tradimento. Nello sviluppo della
rivolta naturalmente giocarono anche spinte repubblicane (incarnate dal
Circolo Italiano) e il sentimento popolare, nettamente orientato contro i
"tedeschi", i nemici secolari, e favorevole invece alle istanze della
Francia, retta dalla monarchia liberale di Luigi Filippo. Si trattava di
istanze minoritarie, esageratamente valutate negli ambienti di corte di
Torino, dove i genovesi si erano guadagnati l'epiteto di "Anarchisti".
Il nuovo re, Vittorio Emanuele II, colse nell'insurrezione popolare il
germe di un pronunciamento repubblicano che non esisteva, almeno come
pericolo imminente e reale. Spedì a riportare l'ordine a Genova trentamila
soldati, al comando del generale Alfonso La Marmora. E fu una strage,
punteggiata da una orribile sequenza di violenze che non risparmiò le
donne e da sanguinose razzie perpetrate di casa in casa. Una pagina
vergognosa per i bersaglieri e per i savoia, che solo dodici anni più
tardi si sarebbero consacrati re d'Italia.
R.Par (Renzo Parodi)
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