MASSIMO ZAMORANIUn anniversario rotondo offre l'occasione per rievocare quello che è forse l'episodio più sconcertante e oscuro della moderna storia d'Italia: centocinquant'anni fa la rivolta di Genova contro la monarchia dei Savoia. Le ragioni che indussero i genovesi a ribellarsi al regio governo e le modalità che caratterizzarono la sanguinosa repressione voluta dal giovane re Vittorio Emanuele II, appena salito al trono dopo l'abdicazione del padre Carlo Alberto, permangono oscure. Anche perché venne fatto di tutto pur di stendere una pesante coltre di silenzio su quella che fu un'autentica, che se breve, guerra civile nel contesto del già iniziato iter del Risorgimento. Per un riesame dei fatti di allora, l'antica associazione genovese «A Compagna» e la Società di storia patria hanno invitato a un convegno per il prossimo ottobre un gruppo di specialisti della storia del Risorgimento. Per cercar di comprendere l'insurrezione del 1849 è necessario tener conto di alcuni elementi essenziali. Con la caduta di Napoleone conseguente alla disfatta di Waterloo, la congrega dei vincitori, riunita in congresso a Vienna nel 1815, pretese di imporre un ordine nuovo (che poi era l'ordine vecchio che si voleva restaurare) aggiungendovi talune variazioni a beneficio dei trionfatori. La Repubblica di Genova, che aveva conservato la sua indipendenza attraverso i secoli e che era stata annessa a forza all'impero napoleonico, non ebbe restituita la sua libertà, ma venne invece offerta in dono al Regno di Sardegna. Contrariamente a quello che in tempi successivi accadde nel corso del processo risorgimentale che portò all'unità d'Italia, all'occupazione militare da parte della monarchia sabauda non fece mai seguito alcun plebiscito popolare. L'annessione del Granducato di Toscana, di Parma e Piacenza, del Lombardo Veneto, del Regno delle due Sicilie fu sempre legittimata da un atto plebiscitario che invece non fu mai concesso a Genova e alla Liguria. All'annessione al Piemonte seguì una grave crisi economica, che è stata di recente tema di ricerca da parte del giovane storico genovese Giorgio Doro. tale congiuntura certamente non favorì la fiducia nel buon governo sabaudo da parte dei genovesi, tenacemente rimasti legati all'idea repubblicana. Nasce il corpo dei soldati piumatiQuest'anno cade un altro anniversario rotondo: i duecento anni dalla nascita di Alessandro Ferrero de La Marmora, nato a Biella il 2 marzo 1799 da una famiglia di piccola nobiltà militare. Alessandro aveva cinque fratelli ed erano tutti ufficiali dell'esercito, quattro dei quali pervenuti al grado di generale. Fra questo lo stesso Alessandro, la cui figura è importante, nel contesto della nostra storia, perché fu lui a inventare il corpo dei Bersaglieri. Presentò infatti una «Proposizione per la formazione di una compagnia di Bersaglieri e di un'arma per il loro uso», che venne respinta dalla conservatrice burocrazia militare. Il giovane capitano, contravvenendo alla norma rigidamente gerarchica, osò ripresentare la sua proposta direttamente al Re, che invece l'accettò e con decreto datato 18 giugno 1836 istituì il corpo dei Bersaglieri e vi trasferì il La Marmora promuovendolo maggiore e ponendolo a capo delle due prime compagnie formate. Dopo la battaglia di Novara, 20 marzo 1849, che segnò la irreparabile sconfitta dell'Esercito piemontese e l'abdicazione del re Carlo Alberto, a Genova si diffuse il timore di tradimento. Si parlava di un'intesa tra Torino e Vienna a i fini di consentire l'occupazione austriaca di Genova. Era vivo il ricordo dell'occupazione di Genova di un secolo prima e della cacciata degli austriaci invasori dopo il famoso episodio di Balilla, 10 dicembre 1746. Difficile valutare quanto il ricordo dell'esacrata invasione precedente abbia giocato nella formazione di uno stato d'animo di ribellione, che indusse i genovesi a non riconoscere l'armistizio stipulato dal governo piemontese con l'Austria e nominare un governo provvisorio cittadino, facente capo a un triumvirato composto dal generale Giuseppe Avezzana comandante la Guardia Nazionale, dall'avvocato Davide Morchio e dal deputato Costantino Reta. Quando poi il generale De Asarta, comandante la guarnigione militare in città ordinò di mettere in posizione i cannoni a San Benigno e a Oregina, in modo da avere il centro urbano sotto tiro, la furia popolare si scatenò e incominciò una vera battaglia, con morti e feriti da ambo le parti. Il generale Giuseppe Avezzana, alla testa della Guardia Nazionale, caricò galoppando lungo via Balbi e il 2 aprile i carabinieri e i granatieri di De Asarta si arresero, consegnando i forti Sperona, Begato, Specola e lasciarono la città dopo aver deposto le armi. A questo punto, secondo il Brofferio, che ricostruì la vicenda genovese una quindicina d'anni dopo i fatti, la situazione avrebbe potuto ancora essere salvata se il ministro dell'Interno Pinelli «avesse voluto essere umano». Invece il governo, reduce dalla sconfitta militare e umiliato dalle condizioni armistiziali imposte dall'Austria, volle compiere un atto di forza esemplare e il generale Alfonso La Marmora, fratello di Alessandro, ravvisò nella repressione un'occasione per mettersi in luce. Il generale, la cui disposizione d'animo è rivelata dalla frase «non meritar riguardo una città di ribelli», mosse alla volta di Genova alla testa di un corpo di spedizione di trentamila uomini, il cui ferro di lancia era costituito da 1600 Bersaglieri, che per quanto il corpo fosse di recentissima costituzione, già erano considerati la crema dell'Esercito per la loro prestanza fisica e l'addestramento. I Piemontesi potevano contare anche sull'appoggio del vascello britannico «Vengeance» comandato dal lord Harwick, alla fonda nel porto di Genova La nefasta ingerenza degli InglesiL'ingerenza inglese apparirà tanto più strana se si considera che il 29 marzo, quando i primi fermenti di insofferenza si palesavano in città, il console inglese Brown si permise l'iniziativa di far affiggere un manifesto con il quale si minacciava l'intervento delle «forze inglesi stanziate in porto, in caso di tumulto volto a rovesciare l'ordine costituito». Il 2 aprile, quando le forze regie escono disarmate dalla città, il corpo di spedizione La Marmora in avvicinamento sulla strada dei Giovi è arrivato a Ronco; il 4 è in vista di Sampierdarena. I diecimila insorti in armi si apprestano alla difesa. Il forte Tenaglia, che chiude la cintura difensiva verso il Ponente, viene occupato dai regi grazie al tradimento del comandante; i cannoni della «Vengeance» aprono il fuoco sul sobborgo di San Teodoro in appoggio alla colonna attaccante che raggiunge la porta si San Tommaso e si accende un furioso combattimento per conquistare il magnifico palazzo Doria di Fassolo. Avanti a tutti sono sempre i Bersaglieri, che vanno all'assalto della casa Bonino, difesa con accanimento da un pugno di insorti. Lo stesso giorno 5, La Marmora ordina il bombardamento della città e anche i pezzi della «Vengeance» si uniscono al coro. Nonostante sia contrassegnato dalla bandiera nera (la Croce Rossa è di là a venire) ripetute salve di artiglieria finiscono sull'ospedale di Pammatone nel centro urbano, dove fanno strage: 107 cadaveri verranno recuperati dai frati Cappuccini e inumati. Tra i religiosi c'è addirittura un santo: Francesco da Camporosso, oggetto di venerazione allora e oggi come «Padre Santo», che successivamente sarà proclamato Beato. L'esercito regio conquista uno per uno i forti, avanza nell'abitato e i soldati hanno la mano pesante: case saccheggiate, cittadini brutalizzati e derubati. Purtroppo non mancano neppure casi di prigionieri passati per le armi e donne stuprate. Il generale La Marmora ordina personalmente la fucilazione di un cittadino. L'11 aprile, a città occupata e insurrezione domata, i soldati di La Marmora sfilano per le vie deserte di una città silenziosa. Nella «Cronistoria documentata dei fatti di Genova» di Gualtiero Lorigiola, pubblicata nel 1898, sono raccolti le testimonianze verbalizzate, la relazione della commissione d'inchiesta, il rapporto del sindaco Antonio Profumo e anche un estratto dall'autodifesa del generale Alfonso La Marmora («Un episodio del Risorgimento italiano» edito da Barbera, Firenza, 1875) che peraltro ammette «... è purtroppo ancora uso di guerra che il saccheggio succeda a una tale presa». Affermazione significativa, che trova riscontro nella relazione della commissione d'inchiesta ove sono elencati 463 casi di violenza definibili come crimini. Bisogna anche dire che sono documentati interventi di ufficiali che si opposero energicamente alle violenze. Il re Vittorio Emanuele II promulgò l'amnistia per i rivoltosi, escludendone però i triumviri Avezana, Reta, Morchio e altri sette cittadini ritenuti capi dell'insurrezione che vennero giudicati e condannati a morte in data 24 luglio mentre un undicesimo, definito «complice», si buscò l'ergastolo. [ Indietro ] |