Stragi e stupri
premiati a suon di medaglie
Le compagnie comandate da Alfonso La Marmora si
dimostrarono particolarmente feroci
Come ci si può spiegare, dopo un secolo e mezzo di voluto oblio, la
durezza della repressione? Per quanto concerne il comando, si consideri
che il prestigio dei generali piemontesi era talmente basso che agli inizi
della campagna del '49, non avendo voluto re Carlo Alberto assumere il
comando dell'esercito in prima persona e non ritenendo i suoi generali
all'altezza del compito, si era pensato di offrire al maresciallo francese
Budgeaud il comando in capo delle truppe piemontesi. Lo stesso Alfonso La
Marmora, inviato a Parigi dal regio governo per invocare un generale in
prestito, ebbe dal capo del governo Cavaignac uno sprezzante rifiuto.
Torino si rivolse allora al generale polacco Alberto Chrzanowsky che
accettò l'invito e condusse l'esercito piemontese al disastro di Novara.
La Marmora, che nel corso della campagna era stato escluso dalle
operazioni contro l'esercito austriaco «ad ogni costo voleva cogliere
allori militari» - scrisse il Lorigiola - e ravvisò nella repressione di
Genova l'occasione da non perdere. Purtroppo il fratello Alessandro,
fondatore e vero comandante dei Bersaglieri, non era presente alla
spedizione contro Genova perché trattenuto a Torino.
Per quanto concerne i militari che così duramente si impegnarono nella
repressione, in particolare i Bersaglieri, si tenga conto che erano
soldati professionisti, per lo più provenienti dalle vallate alpine,
educati non agli ideali di nazione (a quei tempi ignorati) quanto alla
fedeltà al re. Erano uomini semplici e rudi; calzavano scarpe eguali (non
c'era sinistra e destra) nei due piedi nudi, in quanto non erano in
dotazione calze (le «pezze da piedi» furono adottate più tardi) e
neppure mutande. Mangiavano due volte al giorno: alle 9 e alle 16; la
razione giornaliera consisteva in un etto e mezzo di carne, altrettanto di
pasta o riso; quindici grammi di condimento e pane. Era imposta la
«ginnastica fino alla frenesia»; dovevano correre alla cadenza di 140
passi al minuto, lunghi 85 centimetri. Rientravano alle camerate non
servendosi delle scale ma issandosi a forza di braccia sulle funi. Per i
Bersaglieri si può dire che, a parte lo scontro a fuoco di Governolo del
18 luglio 1848, la spedizione contro Genova fu la prima operazione bellica
e vennero impegnati sempre all'attacco in prima schiera, tanto che le due
compagnie di Bersaglieri vennero decorate con Medaglia di Bronzo. Il
conferimento di decorazioni a reparti impegnati in conflitto civile la
dice lunga sulle consuetudini etiche allora vigenti. D'altronde neppure
mezzo secolo più tardi, 1898, il generale Bava Beccaris, che aveva
cannoneggiato il popolo milanese, venne decorato al valor militare.
Dal 1849 i coscritti genovesi non vennero mai assegnati ai reparti di
Bersaglieri (a meno che non ne facessero richiesta) e Genova è l'unica
grande città italiana a non esser mai stata sede di un Reggimento di
Bersaglieri. In tutte le guerre successive il Corpo venne impiegato a
piene mani e sempre con onore, tanto che il bersagliere arrivò ad essere
considerato il soldato più rappresentativo dell'esercito italiano. Lo
storico britannico John Whittam lo definì «soldato eccellente».
Per iniziativa dell'attuale presidente dei Bersaglieri genovesi,
Lorenzo Campana, nel 1994 si tenne a Genova l'annuale raduno nazionale dei
Bersaglieri e l'ospitalità cittadina fu calda ed entusiasta. L'antica
ferita dunque non brucia più, ma sono rimasti a Genova i segni
dell'insurrezione di un secolo e mezzo fa? Qualche palla di cannone
conficcata nelle pareti di vecchi palazzi; la targa viaria dedicata ai
protagonisti della rivolta come Costantino Reta o Alessandro De Stefanis,
studente in medicina che si batté in difesa di forte Begato, venne ferito
a colpi di baionetta e morì dopo un'agonia durata 28 giorni. Gli è
dedicata anche una lapide nella chiesa di Oregina. Nella chiesa dei
Cappuccini del Padre Santo c'è un'altra lapide con i nomi dei caduti ed
è conservato l'elenco delle vittime.
A Genova sopravvive - e il malgoverno nazionale e locale non ha fatto
che attizzarla - l'aspirazione all'autogoverno, alla gestione autonoma
delle risorse, al ripristino di quella Repubblica forte, ricca e
indipendente soppressa prima da Napoleone e fagocitata poi dalla monarchia
sabauda. Non è infrequente imbattersi ancor oggi in qualche vecchio
genovese che insiste con il dire che nessun plebiscito popolare ha
legittimato l'annessione, pertanto «siamo ancora occupati dai
piemontesi».
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