L'amarezza dei genovesi per le cannonate del 1849
Per noi Lamarmora
è il generale Custer
di CAMILLO ARCURI
GENOVA, 5 aprile
Le cannonate di Bava Beccaris, arrivate ormai all'ufficialità dei libri di testo
e della TV, sono l'eccezione. La regola culturale, diversa, è che continua a rimanere
sommersa quella parte di storia italiana da sempre ignorata, perché non scritta a
onore e vanto di monarchi o generali. Quanti sanno, fuori dalla cerchia degli addetti
agli studi, che un altro generale, Lamarmora, bombardò Genova con l'artiglieria,
dopo di che i suoi bersaglieri misero a sacco la città per punirla di essersi
ribellata a un armistizio che, troncati tanti patriottici sogni di indipendenza,
costrinse Carlo Alberto all'esilio? Accadde il 5 aprile 1849 per ordine di Vittorio
Emanuele II, da pochi giorni re; e non è soltanto la ricorrenza del 130° anniversario
della data a suggerire la rilettura di una pagina ai più sconosciuta.
In quei fatti lontani è possibile riconoscere il seme di un'antica e mai sopita
diffidenza reciproca stabilitasi nei rapporti di Genova con lo Stato italiano fin
dalla sua nascita. E forse c'è anche la chiave per decifrare la continuità di
un'insofferenza mantenuta un secolo dopo l'altro dalla gente di qui verso il potere
centrale, fosse sabaudo, fascista o democonservatore. È un'insofferenza di cui si
hanno molte prove nel tempo, dai moti mazziniani e risorgimentali ai più recenti
sussulti operai e popolari, che hanno posto questa città in odor di ribellismo fin
quasi ai giorni nostri.
L'origine di tanta avversione a Torino e a Roma capitali è storicamente chiarita.
Repubblicani ed eredi di una tradizione civile certo avanzata (non a caso sotto la
Lanterna la rieleggibilità dei dogi era assai limitata), i genovesi vissero
l'annessione al Piemonte «monarchico e retrivo come un'occupazione militare. E se
i loro rappresentanti non firmarono mai - altro particolare poco noto - il trattato
del 18l4 che sanciva la fine degli «imprescrittibili diritti» di libertà, i
cittadini subirono il nuovo corso, gabelle doganali comprese, come prezzo da pagare
al grande disegno mazziniano di unità nazionale.
Quando alla fine del marzo 1849, dopo soli 4 giorni di battaglia, l'esercito
regio fu battuto a Novara e l'armistizio portò le truppe austriache fin dentro la
piazzaforte di Alessandria, alla protesta del Parlamento Subalpino rimasta a verbale
e inascoltata dalla Corono, seguì la sollevazione di Genova. È vero, come narrò un
anonimo testimone del tempo rifugiato a Marsiglia (forse Nicolò Accame), che causa
dell'insurrezione furono «il dolore delle volute sconfitte, le morte speranze, l'onta
dell'armistizio, la necessità di salvare almeno l'onore», ma, come chiarisce l'attuale
analisi di Leonida Balestrieri nella prefazione a quelle memorie, c'erano già i germi
del repubblicanesimo e del socialismo a far temere «l'incubo del ministro Pinelli e
la dissolulzione del Parlamento», cioè la svolta autoritaria impressa subito dopo la débâcle della casa regnante.
Non si sbagliava insomma il neo-sovrano Vittorio Emanuele II a sentire in quei
moti che reclamavano l'immediata ripresa della guerra - ma guerra di popolo - contro
Radetzsky anche fremiti di opposizione ai Savoia. Uno dei suoi primi atti di re fu
perciò l'ordine a 30 mila bersaglieri di marciare sulla città in rivolta, «portando
l'armi contro i propri fratelli, mentre l'austriaco alle spalle invadeva le nostre
province». Tre giorni di combattimenti, dal 5 al 7 aprile, bastarono per schiacciare
la resistenza della Guardia Nazionale del generale Giuseppe Avezzana schieratosi
dalla parte degli insorti. E se molti furono i tradimenti, gli atti di sabotaggio
dei «nemici interni» che - racconta l'anonimo - spianarono la strada ai regi, non
mancarono gesta epiche, come il sacrificio del «valoroso Luigi Rattazzi, sarto di
professione e padre di 7 figli», che sparò da solo 60 fucili lasciati sulle mura
dai disertori prima di cadere colpito in piena fronte.
Quando tutto ebbe fine, atrocemente, con centinaia di morti da entrambe le parti,
violenza su gente indifesa, donne stuprate, ospedali devastati, case e chiese
depredate, il futuro «padre della patria» scrisse in francese un messaggio di
congratulazioni a «Mon cher géneral» Lamarmora per la dura lezione inflitta a
questa «vile e infetta razza di canaglia».
Genova ne pagò a lungo il fio. Perfino il liceo fu portato a Torino, per un
controllo più diretto sulla formazione delle classi colte; mentre nella nuova
urbanistica tracciata da architetti e generali piemontesi fu demolita sul colle
di San Benigno la chiesa dove erano sepolti i dogi, i loro resti dispersi con le
macerie e al suo posto vennero costruite le caserme da dove i cannoni rimasero
puntati sulla città fino ai primi anni del '900. A dire quali furono i sentimenti
di reazione maturati nel conscio o inconscio collettivo, basti ricordare che per
un secolo circa nessuna famiglia di qui avrebbe mal voluto un figlio non diciamo
bersagliere o carabiniere (i corpi direttamente impegnati nella repressione del
'49) ma nemmeno nell'amministrazione statale.
I fini di questo stato d'animo erano incisi anche sui muri: molte case di
Portoria, il quartiere di Balilla, centrato dalle batterie di Lamarmora, avevano
murato lapidi e palle di cannone a ricordo dell'offesa subita. Prefetti, sindaci
e benpensanti di ogni tempo - come nota Dario Scotto, cultore di questa genovesità
dimenticata - provvidero poi a farle rimuovere, sicché oggi ne resta soltanto una
in un edificio della vecchia via Porta Soprana 23, «ultima riserva dei discendenti
di quell'orgoglioso ceppo etnico».
Ben altro segno della punizione inflitta alla Superba dall'irato sovrano è
ancora oggi visibile però nello stesso stemma di Genova: i grifoni, simbolo di
ardimento e fierezza, originariamente con la coda alta e ritta, sono stati
ridisegnati con la coda in mezzo alle gambe, nel tipico atteggiamento di chi è stato
bastonato e ammansito.
Soltanto che quasi nessuno se ne è accorto. Forse perché - è l'amaro commento -
i discendenti dei bersaglieri genovesi di un tempo sono un po' come i pellerossa:
anch'essi battuti e dispersi da troppe avversità lontane e recenti, si sentono
rassegnati, impotenti, chiusi in riserva. Forse non servirebbe nemmeno ritoccare lo
stemma rimettendo dritta quella coda ormai floscia.
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