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Meridiano Sud
Lunedì 31 marzo 2008
Il sacco di Genova del 1849
Gaetano Marabello
Non fu buon profeta il massone Giuseppe Avezzana quando, nel lasciare Genova per
l’esilio romano in un mesto giorno di aprile del 1849, rivolse queste parole agli
abitanti: ”La storia ricorderà lungamente le vostre barricate”. In questo come in
altri casi, invece, la storia scritta dai vincitori s’industriò a far calare la sordina
sulla sanguinosa vicenda, che in quel momento volgeva all’epilogo. Non conveniva
infatti tramandare che il re “galantuomo” non s’era dimostrato affatto tale verso la
città, che gli si era ribellata a pochi giorni dal suo insediamento sul trono lasciato
vacante da Carlo Alberto. All’indomani della disfatta di Novara i genovesi dettero
infatti il via a un’insurrezione, che qualcuno definì un’anticipazione della Comune
di Parigi. Molteplici ne furono gli elementi scatenanti. La “Superba”, memore delle
ancor recenti glorie marinare dell’antica Repubblica soppressa da Napoleone, aveva
mal digerito l’annessione al Piemonte del 1815. La cittadinanza, abituata all’autonomia
repubblicana, non accettava la monarchia. L’annessione aveva portato pure la crisi
economica, perché la retriva politica savoiarda aveva tarpato ogni proiezione
cittadina in direzione dello sviluppo portuale e mercantile. E così la memoria di
molti, tornando malinconicamente all’insurrezione vittoriosa suscitata dal gesto di
Balilla del 1746 contro gli austro-piemontesi, alimentava ancora qualche velleità
d’indipendenza. Ciò spiega anche perché i genovesi, al momento delle famose giornate
di Milano, simpatizzarono subito per i lombardi i quali, ribellandosi agli austriaci,
non avevano neanche intenzione di entrare nell’orbita savoiarda. Va aggiunto che
l’insofferenza per il giogo piemontese era ricambiata dai sospetti sabaudi. Lo
dimostra il fatto che il ministro dell’interno Pinelli arrivò a scrivere in una
lettera di ritenere “desiderabile uno scoppio dei malumori” genovesi, per aver il
pretesto di soffocarli. Fu presto accontentato.
E’ la famosa sconfitta di Novara del 23 marzo 1949 a dar la stura al magma che
preme sotto la crosta. Il partito dei liberali locali, appiattito su posizioni
filogovernative, si trova allora in difficoltà di fronte alle spinte radicali che
partono da repubblicani, mazziniani, socialisti e persino conservatori. Cominciano
a correre in giro voci d’ogni tipo, gonfiate ad arte da qualche mestatore di mestiere
che soffia sul fuoco dei mai sopiti sentimenti antimonarchici. Si ventila persino l
’ipotesi che su Genova stia per piombare Radetzky, con il beneplacito piemontese
quale contropartita della sconfitta. Il partito della guerra che fa capo al “Circolo
nazionale” innalza subito le insegne della “lotta popolare ad oltranza”, in alternativa
a quella savoiarda dimostratasi perdente. Partono proposte di gemellaggio con la
Repubblica romana, dalla quale vengono inviati in risposta, anche se tardivamente,
Goffredo Mameli e Nino Bixio. Altre richieste di aiuto vengono indirizzate alla
divisione lombarda accampata a Tortona, ma il generale Fanti, che ha da poco giurato
fedeltà al re, riesce a trattenere i suoi sia pure (secondo una fonte inglese)
“con grandi difficoltà”. Con una buona dose d’ingenuità politica, viene offerta
pure ospitalità al parlamento piemontese, che stando alle voci che si accavallano
starebbe smobilitando. Intanto, ci si prepara freneticamente a respingere un nemico
che si immagina alle porte, chiunque esso sia. La guarnigione piemontese di stanza
in città si trova in quel frangente agli ordini di Giacomo De Asarta. L’anziano
generale però non osa portare alle estreme conseguenze lo stato d’assedio, una volta
che l’ha dichiarato. Invia infatti un dispaccio ad Alfonso La Marmora, che non attende
altro, perché faccia convergere le sue truppe a scopo deterrente sul centro cittadino.
Uno dei messaggeri viene però intercettato dalla folla che si agita nelle vie. A
tal punto, la spinta dei più facinorosi scatena una sorta di isterismo collettivo.
Costituito un Comitato di difesa e armati i “camalli” (facchini), le autorità
municipali chiedono al generale di consegnare alla Guardia Nazionale comandata da
Avezzana alcuni fortini. Il generale si asserraglia nell’Arsenale di S.Spirito e
cede solo i forti di Begato e Lo Sperone. I manifestanti prendono allora in ostaggio
l’intendente, il generale di piazza e la famiglia del De Asarta. In un clima sempre
più eccitato e convulso, i dimostranti sequestrano le armi depositate alla Darsena.
Quando però pretendono pure quelle dell’Arsenale, s’accende una violenta sparatoria
che causa 23 morti ai rivoltosi e 5 alla truppa. Per scongiurare altri guai, De Asarta
preferisce allora stipulare una capitolazione e lasciare la città, la quale è però
sul punto d’essere investita dalle colonne piemontesi di soccorso. La Marmora,
favorito dal fatto che i rivoltosi apprestano barricate all’interno anziché presidiare
le mura, il 1 aprile conquista le porte di S.Benigno e La Lanterna. Il giorno dopo
inizia il sacco della città. Omicidi, furti, stupri e violenze che ne seguono sono
principalmente opera dei bersaglieri che costituiscono la punta di diamante dei 30.000
soldati calati su Genova. I danni, quantificati in seguito da un’apposita commissione,
sono ingentissimi Si tratta di una pagina terribile che è stata riportata alcuni anni
fa alla ribalta dal prof. Franco Bampi della Lega Nord. La Marmora ne attribuirà la
colpa ad una parte dei suoi soldati, definiti “codardi”. Il colpo di grazia è inferto
dagli inglesi (sempre presenti nelle vicende risorgimentali) attraverso la nave
“Vengeance” che manovra nel porto. Un furioso bombardamento provoca oltre cento morti
nell’ospedale, che viene centrato benché sia contrassegnato per tale. Scontri e
razzie proseguono fino al 6 aprile, quando La Marmora concede una tregua per consentire
a una delegazione cittadina di andare a chiedere a Torino l’amnistia. Segue
l‘inevitabile resa e tre giorni dopo una città muta e dolente è costretta a veder
sfilare in parata i vincitori. Per tutta risposta porte e finestre restano serrate.
I morti e i feriti si conteranno a centinaia. Molti degli arrestati, quando non son
passati per le armi, vengono sottoposti a sevizie e lasciati privi di acqua e cibo.
Undici promotori della sommossa sono infine condannati a morte in contumacia. Mai
del tutto sopiti restano a lungo i rancori e gli strascichi di un episodio di guerra
civile, che frutterà vergognosamente una medaglia d’oro a La Marmora e due di bronzo
alle compagnie di bersaglieri utilizzate nell’assalto. Da par suo, Vittorio Emanuele
II completerà l’opera, affibbiando al popolo ribelle l’epiteto di “vile e infetta
razza di canaglie”. E naturalmente lo scriverà in quel francese che era il vero idioma
della sua dinastia.
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