Dopo
omicidi, stupri e furti gli italiani decretarono la fine di ogni forma di
autonomia
Una strage al suon della fanfare
Il 5 aprile 1849 i bersaglieri invadevano
Genova, massacrandone la popolazione
FRAVIU CAVIGIA GRISULIA
Cade in questi giorni, l'anniversario di uno dei tanti eventi storici,
volutamente taciuti dalla storiografia di regime e perciò a lungo ignorati dai
libri di testo delle scuole di ogni ordine e grado. Esattamente quattro anni fa,
in occasione di un raduno nazionale di bersaglieri a Genova, un gruppo di patrioti
liguri, raccolti nel Movimento spontaneo Alessandro De Stefanis, riuscì a
portare addirittura sulla stampa nazionale, l'accesa polemica che li vedeva
contrapposti agli organizzatori della manifestazione, a motivo del duro
saccheggio, durato alcuni giorni, che la città subì dalle truppe di La Marmora,
dopo essere insorta. Da allora il fatto non ha più potuto essere ignorato e
miracolosamente è apparso, dopo quasi centocinquant'anni d'oblio, persino sui
testi scolastici, divenendo di fatto patrimonio comune del nostro Popolo. Oggi
per l'occasione questo mio articolo vuol essere, oltre che un doveroso ricordo
di quei tragici eventi, anche un primo tentativo di analisi di un periodo ancora
tutto da approfondire e più vicino a noi di quanto si pensi.
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Si guardava
al Popolo ligure
solo in termini
di sfruttamento |
L'occupazione militare dei territori della gloriosa Repubblica di Genova, da
parte delle truppe sabaude nel 1815, aveva avuto come conseguenza, oltre alla fine
di ogni forma di autonomia, una gravissima crisi economica, risultato del fatto che
da Torino si guardava a Genova e al Popolo ligure, più in termini di sfruttamento
coloniale che di beni e ricchezze da mantenere in vita. In quest'ottica si può
spiegare la nascita di un dazio interno per e non dal Piemonte, che aveva
letteralmente distrutto l'economia agricola e industriale dell'ex Serenissima,
mentre il porto a causa dei pesanti balzelli conosceva il periodo più nero della
sua millenaria storia. Nascevano perciò i presupposti per quell'esodo, che per
buona parte del XIX° secolo e anche in seguito, vedrà intere generazioni di Liguri,
soprattutto dell'entroterra, solcare l'oceano alla ricerca oltre che del pane,
anche di una negata libertà. In questa situazione di totale sbandamento e di
mancanza di saldi riferimenti, un ruolo importante riuscì a giocarlo la Massoneria
e le associazioni segrete da essa derivate (Carboneria, Giovine Italia, Filadelfi,
ecc.), che grazie agli apporti economici della borghesia che, insieme a una
parte della nobiltà aveva ricavato notevoli benefici d'ordine materiale dalla fine
della Repubblica, riuscì a diffondere, soprattutto nell'ambiente universitario
e nei circoli intellettuali, le idee giacobine e liberali, parzialmente depurate
a seconda dei casi e luoghi, degli aspetti più apertamente contrari all'ordinamento
esistente.
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Il terrorista Giuseppe Mazzini in una stampa
d'epoca |
Il fenomeno restava comunque essenzialmente limitato alle città e ai ceti più
abbienti, mentre il popolo, soprattutto nelle campagne, continuava ad esser
fedele alla Tradizione e a rimpiangere le passate istituzioni.
Si spingeva poi il legittimo sentimento di indipendenza e libertà da un
dominio straniero, quello sabaudo, nell'innaturale direzione di una riscossa
globale dei popoli della cosiddetta Italia, cui i Liguri sarebbero appartenuti
e all'oppressione economica e fiscale, si contrapponeva la soluzione taumaturgica
del "progresso" e delle riforme "democratiche", secondo un copione
che da Adam Smith sino ai giorni nostri, ha conosciuto solo "variazioni sul
tema", in una visione prettamente economicistica, in cui i popoli, le loro storie
e tradizioni, erano solo comparse. L'Impero austriaco, diretto erede di un
concetto d'Europa unita nel solco della Tradizione, pur nel rispetto delle
diverse identità, era l'ostacolo principale alla nascita dei grandi mercati
nazionali, a cui gli stati-nazione omogeneizzatori di tutte le culture, dovevano
costituire il supporto strutturale e ideologico. I Mazziniani, portatori di
un giacobinismo social-nazionale, rappresentavano per contro, l'ala più
estremistica ed organizzata dei nazionalisti italioti e furono i promotori a
Genova del tentativo insurrezionale del 1833 e dei disordini del 1848,
sull'onda dei moti che in sequenza certo non casuale, stavano insanguinando
l'Europa. La nascita di una nuova classe, il proletariato, e il prorompere
sulla ribalta socio politica, di una "questione operaia" (il Manifesto
di Marx ed Engels è del gennaio 1848), avevano inoltre portato alla partecipazione
diretta di ceti popolari alle rivolte, facendoli divenire inconsapevoli
alleati di coloro che in ultima analisi erano la reale causa della precarietà
del loro stato. A Genova tutto ciò era forse meno avvertibile che altrove,
data la scarsa industrializzazione della città, ragion per cui fu necessano
strumentalizzare a fini "patriottici" il forte sentimento anti-sabaudo
e lo spirito indipendentista, che ancora animavano il popolo.
Per ben 36 ore Zena fu
sottoposta
a un bombardamento che colpì
in particolar modo il quartiere
di Portoria, compreso l'ospedale |
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Su queste basi e scegliendo ad arte il momento più delicato per la monarchia
sabauda, vale a dire l'indomani della pesantissima sconfitta di Novara, dove il
generale austriaco Radetzky, aveva umiliato l'esercito piemontese, il 27 marzo
1849 si costituiva a Genova un Comitato di Sicurezza Pubblica, presieduto dal
piemontese Giuseppe Avezzana, generale della Guardia Civica, nonché massone e
combattente napoleonico e garibaldino in Sudamerica, che prendeva possesso della
città il 2 aprile, dopo solo tre ore di scontri con le truppe regolari. L'intento
dei rivoltosi era quello di costituire un comune fronte anti-austriaco con
Veneti, Toscani e Romani, tutti momentaneamente retti da repubbliche
filo-mazziniane, al fine di continuare insieme ai nazionalisti ungheresi,
anch'essi in rivolta, la guerra all'Impero, esautorando nel contempo una
volta per tutte, un alleato scomodo come quello sabaudo.
La partecipazione popolare agli eventi, era stata garantita dai "camalli" del
porto, non certo per amore all'Italia, bensì oltre che per le motivazioni già
menzionate, anche per il forte scontento che animava questa categoria, da
quando cinque anni prima le era stato tolto il monopolio dello sbarco e imbarco
dalle calate esterne di S. Lazzaro e di quelle interne del porto.
Tutto ciò però non fu assolutamente sufficiente a fronteggiare i quasi
30.000 tra carabinieri, bersaglieri, fanti e cavalleggeri, che al comando del
generale Alfonso La Marmora, attaccarono Genova il 5 aprile. La sera stessa tutto
era infatti tornato all'ordine precedente.
Al di là degli scontri che non ebbero storia, per l'evidente disparità
delle forze in campo, l'avvenimento che non potrà mai essere cancellato dalla
memoria storica del Popolo ligure, fu la beluina ferocia con cui le truppe
sabaude si accanirono sulla città e i suoi inermi abitanti. Per ben 36 ore Genova
fu sottoposta a un terribile bombardamento, che colpì in particolar modo il
quartiere di Portoria, compreso l'ospedale di Pammatone, con il solo scopo di
causare vittime tra la popolazione. Oltre a ciò la città dovette subire l'oltraggio
di un saccheggio durato tre giorni col suo criminale corollario di omicidi,
stupri, violenze d'ogni genere, vandalismi e ruberie. Una commissione creata in
seguito per l'accertamento dei danni, riceverà 467 denunce, una cifra di per
sé già alta, ma indubbiamente molto lontana dalla realtà, a causa degli evidenti
freni dovuti a paure di ritorsioni o al pudore e alla vergogna di narrare fatti
impronunciabili.
Sintomatico del sentimento anti-genovese che animava la monarchia sabauda,
la qualifica di "VILE E INFETTA RAZZA DI CANAGLIE", con cui il novello re
Vittorio Emanuele II° definiva, in una lettera di congratulazioni inviata a La
Marmora in data 8 aprile 1849 i Genovesi. Il generale da par suo non era comunque
stato da meno, allorquando prima di sferrare l'attacco, aveva dichiarato
sprezzante che: "NON MERITA RIGUARDO UNA CITTÀ DI RIBELLI", con tutto
quello che di tragico poi purtroppo ne consegui.
Finiva così un'avventura nata male e finita peggio, su cui è però utile fare
due ultime considerazioni: la prima è che alla scarsa partecipazione popolare
della città alla rivolta, fece eco l'assoluta indifferenza degli abitanti dei
centri vicini e soprattutto dell'entroterra, che a decine di migliaia si erano
invece molibilitati durante le insorgenze anti-giacobine a cavallo del secolo;
la seconda è che una città fortificata come Genova, poteva con poche migliaia
di difensori tenere testa a lungo, anche a truppe numerose come quelle del La
Marmora. Tutto ciò fa pensare a un ridotto numero di rivoltosi e se a questo
si aggiunge il fatto che, tra le loro fila numerosi erano i "patrioti"
immigrati e ad essi si unì un folto contingente di armati polacchi, capitati
in città non si sa come, ci si può render conto di come Genova fu doppiamente
vittima di vicende a lei totalmente estranee.
Ai pochi che sinceramente scesero in piazza, con la segreta speranza di un
futuro più libero e prospero per la loro città e il loro Popolo, molti e molti
altri si sarebbero probabilmente aggiunti se si fosse invocato a gran voce il
ritorno alla gloriosa Repubblica di Genova: ma il loro Risorgimento non era
certamente quello.
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