Una strage al suon delle fanfare
liguria@francobampi.it
 

Home > Sacco di Genova: aprile 1849 > Le bombe dimenticate
[ Indietro ]

la Padania Mercoledì 8 aprile 1998

Dopo omicidi, stupri e furti gli italiani decretarono la fine di ogni forma di autonomia

Una strage al suon della fanfare

Il 5 aprile 1849 i bersaglieri invadevano Genova, massacrandone la popolazione

FRAVIU CAVIGIA GRISULIA

Cade in questi giorni, l'anniversario di uno dei tanti eventi storici, volutamente taciuti dalla storiografia di regime e perciò a lungo ignorati dai libri di testo delle scuole di ogni ordine e grado. Esattamente quattro anni fa, in occasione di un raduno nazionale di bersaglieri a Genova, un gruppo di patrioti liguri, raccolti nel Movimento spontaneo Alessandro De Stefanis, riuscì a portare addirittura sulla stampa nazionale, l'accesa polemica che li vedeva contrapposti agli organizzatori della manifestazione, a motivo del duro saccheggio, durato alcuni giorni, che la città subì dalle truppe di La Marmora, dopo essere insorta. Da allora il fatto non ha più potuto essere ignorato e miracolosamente è apparso, dopo quasi centocinquant'anni d'oblio, persino sui testi scolastici, divenendo di fatto patrimonio comune del nostro Popolo. Oggi per l'occasione questo mio articolo vuol essere, oltre che un doveroso ricordo di quei tragici eventi, anche un primo tentativo di analisi di un periodo ancora tutto da approfondire e più vicino a noi di quanto si pensi.

  

Si guardava
al Popolo ligure
solo in termini
di sfruttamento

L'occupazione militare dei territori della gloriosa Repubblica di Genova, da parte delle truppe sabaude nel 1815, aveva avuto come conseguenza, oltre alla fine di ogni forma di autonomia, una gravissima crisi economica, risultato del fatto che da Torino si guardava a Genova e al Popolo ligure, più in termini di sfruttamento coloniale che di beni e ricchezze da mantenere in vita. In quest'ottica si può spiegare la nascita di un dazio interno per e non dal Piemonte, che aveva letteralmente distrutto l'economia agricola e industriale dell'ex Serenissima, mentre il porto a causa dei pesanti balzelli conosceva il periodo più nero della sua millenaria storia. Nascevano perciò i presupposti per quell'esodo, che per buona parte del XIX° secolo e anche in seguito, vedrà intere generazioni di Liguri, soprattutto dell'entroterra, solcare l'oceano alla ricerca oltre che del pane, anche di una negata libertà. In questa situazione di totale sbandamento e di mancanza di saldi riferimenti, un ruolo importante riuscì a giocarlo la Massoneria e le associazioni segrete da essa derivate (Carboneria, Giovine Italia, Filadelfi, ecc.), che grazie agli apporti economici della borghesia che, insieme a una parte della nobiltà aveva ricavato notevoli benefici d'ordine materiale dalla fine della Repubblica, riuscì a diffondere, soprattutto nell'ambiente universitario e nei circoli intellettuali, le idee giacobine e liberali, parzialmente depurate a seconda dei casi e luoghi, degli aspetti più apertamente contrari all'ordinamento esistente.

Il terrorista Giuseppe Mazzini in una stampa d'epoca

Il fenomeno restava comunque essenzialmente limitato alle città e ai ceti più abbienti, mentre il popolo, soprattutto nelle campagne, continuava ad esser fedele alla Tradizione e a rimpiangere le passate istituzioni.

Si spingeva poi il legittimo sentimento di indipendenza e libertà da un dominio straniero, quello sabaudo, nell'innaturale direzione di una riscossa globale dei popoli della cosiddetta Italia, cui i Liguri sarebbero appartenuti e all'oppressione economica e fiscale, si contrapponeva la soluzione taumaturgica del "progresso" e delle riforme "democratiche", secondo un copione che da Adam Smith sino ai giorni nostri, ha conosciuto solo "variazioni sul tema", in una visione prettamente economicistica, in cui i popoli, le loro storie e tradizioni, erano solo comparse. L'Impero austriaco, diretto erede di un concetto d'Europa unita nel solco della Tradizione, pur nel rispetto delle diverse identità, era l'ostacolo principale alla nascita dei grandi mercati nazionali, a cui gli stati-nazione omogeneizzatori di tutte le culture, dovevano costituire il supporto strutturale e ideologico. I Mazziniani, portatori di un giacobinismo social-nazionale, rappresentavano per contro, l'ala più estremistica ed organizzata dei nazionalisti italioti e furono i promotori a Genova del tentativo insurrezionale del 1833 e dei disordini del 1848, sull'onda dei moti che in sequenza certo non casuale, stavano insanguinando l'Europa. La nascita di una nuova classe, il proletariato, e il prorompere sulla ribalta socio politica, di una "questione operaia" (il Manifesto di Marx ed Engels è del gennaio 1848), avevano inoltre portato alla partecipazione diretta di ceti popolari alle rivolte, facendoli divenire inconsapevoli alleati di coloro che in ultima analisi erano la reale causa della precarietà del loro stato. A Genova tutto ciò era forse meno avvertibile che altrove, data la scarsa industrializzazione della città, ragion per cui fu necessano strumentalizzare a fini "patriottici" il forte sentimento anti-sabaudo e lo spirito indipendentista, che ancora animavano il popolo.

Per ben 36 ore Zena fu sottoposta
a un bombardamento che colpì
in particolar modo il quartiere
di Portoria, compreso l'ospedale

   

Su queste basi e scegliendo ad arte il momento più delicato per la monarchia sabauda, vale a dire l'indomani della pesantissima sconfitta di Novara, dove il generale austriaco Radetzky, aveva umiliato l'esercito piemontese, il 27 marzo 1849 si costituiva a Genova un Comitato di Sicurezza Pubblica, presieduto dal piemontese Giuseppe Avezzana, generale della Guardia Civica, nonché massone e combattente napoleonico e garibaldino in Sudamerica, che prendeva possesso della città il 2 aprile, dopo solo tre ore di scontri con le truppe regolari. L'intento dei rivoltosi era quello di costituire un comune fronte anti-austriaco con Veneti, Toscani e Romani, tutti momentaneamente retti da repubbliche filo-mazziniane, al fine di continuare insieme ai nazionalisti ungheresi, anch'essi in rivolta, la guerra all'Impero, esautorando nel contempo una volta per tutte, un alleato scomodo come quello sabaudo.

La partecipazione popolare agli eventi, era stata garantita dai "camalli" del porto, non certo per amore all'Italia, bensì oltre che per le motivazioni già menzionate, anche per il forte scontento che animava questa categoria, da quando cinque anni prima le era stato tolto il monopolio dello sbarco e imbarco dalle calate esterne di S. Lazzaro e di quelle interne del porto.

Tutto ciò però non fu assolutamente sufficiente a fronteggiare i quasi 30.000 tra carabinieri, bersaglieri, fanti e cavalleggeri, che al comando del generale Alfonso La Marmora, attaccarono Genova il 5 aprile. La sera stessa tutto era infatti tornato all'ordine precedente.

Al di là degli scontri che non ebbero storia, per l'evidente disparità delle forze in campo, l'avvenimento che non potrà mai essere cancellato dalla memoria storica del Popolo ligure, fu la beluina ferocia con cui le truppe sabaude si accanirono sulla città e i suoi inermi abitanti. Per ben 36 ore Genova fu sottoposta a un terribile bombardamento, che colpì in particolar modo il quartiere di Portoria, compreso l'ospedale di Pammatone, con il solo scopo di causare vittime tra la popolazione. Oltre a ciò la città dovette subire l'oltraggio di un saccheggio durato tre giorni col suo criminale corollario di omicidi, stupri, violenze d'ogni genere, vandalismi e ruberie. Una commissione creata in seguito per l'accertamento dei danni, riceverà 467 denunce, una cifra di per sé già alta, ma indubbiamente molto lontana dalla realtà, a causa degli evidenti freni dovuti a paure di ritorsioni o al pudore e alla vergogna di narrare fatti impronunciabili.

Sintomatico del sentimento anti-genovese che animava la monarchia sabauda, la qualifica di "VILE E INFETTA RAZZA DI CANAGLIE", con cui il novello re Vittorio Emanuele II° definiva, in una lettera di congratulazioni inviata a La Marmora in data 8 aprile 1849 i Genovesi. Il generale da par suo non era comunque stato da meno, allorquando prima di sferrare l'attacco, aveva dichiarato sprezzante che: "NON MERITA RIGUARDO UNA CITTÀ DI RIBELLI", con tutto quello che di tragico poi purtroppo ne consegui.

Finiva così un'avventura nata male e finita peggio, su cui è però utile fare due ultime considerazioni: la prima è che alla scarsa partecipazione popolare della città alla rivolta, fece eco l'assoluta indifferenza degli abitanti dei centri vicini e soprattutto dell'entroterra, che a decine di migliaia si erano invece molibilitati durante le insorgenze anti-giacobine a cavallo del secolo; la seconda è che una città fortificata come Genova, poteva con poche migliaia di difensori tenere testa a lungo, anche a truppe numerose come quelle del La Marmora. Tutto ciò fa pensare a un ridotto numero di rivoltosi e se a questo si aggiunge il fatto che, tra le loro fila numerosi erano i "patrioti" immigrati e ad essi si unì un folto contingente di armati polacchi, capitati in città non si sa come, ci si può render conto di come Genova fu doppiamente vittima di vicende a lei totalmente estranee.

Ai pochi che sinceramente scesero in piazza, con la segreta speranza di un futuro più libero e prospero per la loro città e il loro Popolo, molti e molti altri si sarebbero probabilmente aggiunti se si fosse invocato a gran voce il ritorno alla gloriosa Repubblica di Genova: ma il loro Risorgimento non era certamente quello.

[ Indietro ]