E «La
Superba» insorse
ACHILLE REGAZZONI
La Liguria e Genova in particolare
dettero un grande apporto alla formazione dell'Italia unita. Fu un
contributo sia teorico che di sangue, offerto sui campi di battaglia. La
corrente patriottica predominante era quella repubblicana e, dopo che il
Congresso di Vienna assegnò al Regno di Sardegna i territori dell'ex
Repubblica, non furono molti a rimanere entusiasti
La Liguria e Genova, in particolare, diedero un grandissimo contributo
alla formazione dell'Italia unita, un contributo sia teorico che di sangue
offerto sui campi di battaglia. La corrente patriottica predominante, però,
era quella repubblicana. Genova era stata una repubblica per secoli. «La Superba»,
veniva chiamata non a caso, ed essere liguri e repubblicani ad un tempo era
considerata una cosa abbastanza naturale. Non per niente a Genova nacque
Giuseppe Mazzini, Apostolo dell'Unità sì, ma anche convinto alfiere
dell'idea repubblicana.
Fu per questo che, quando il Congresso di Vienna assegnò al Regno di
Sardegna i territori dell'ex-Repubblica di Genova, non furono moltissimi, almeno
tra i liguri, gli entusiasti della nuova situazione. Il Regno di Sardegna
non era, poi, ancora quello di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, ma
quello di sovrani reazionari e piuttosto proni ai voleri dell'Austria, quali
Vittorio Emanuele I e Carlo Felice.
Già nel 1846, quando Genova ospita l'ottavo Congresso degli Scienziati
Italiani, si capisce il profondo ed oramai radicato patriottismo della città.
Sono cent'anni che gli austriaci sono stati cacciati dalla città grazie al
famoso sasso dell'intrepido Balilla, e l'occasione è ghiotta per organizzare
manifestazioni, ufficialmente indirizzate contro gli austriaci di ieri (per
inciso. alleati dei piemontesi...) ma dirette, in realtà, agli austriaci di
oggi. Si evidenzia il giovane poeta Goffredo Mameli, il quale, in una poesia
dedicata a quei fatti di un secolo prima, inserisce un ritornello che diverrà
assai popolare e convincerà la gente «che se il Popolo si desta / Dio combatte
alla sua testa / il Suo fulmine gli dà».
La situazione è incandescente, ed i patrioti liberali e moderati, per
cercare di controllare le tendenze della popolazione affinché non degenerino,
costituiscono il «Comilalo dell'Ordine», presieduto dal Marchese Giorgio Doria.
I patrioti più estremisti, invece, sono riuniti nel «Circolo nazionale» e nel
«Circolo Italiano».
Il 7 gennaio del 1848 i patrioti moderati si recano a Torino per persuadere
il Re a permettere l'istituzione della Guardia Civica e a cacciare i Gesuiti
dalla città. La delegazione viene accolta dal Primo Segretario di Stato, il
Conte Borelli, che la tratta con arroganza e cattiveria. La convinzione dei
genovesi di essere considerati dal Piemonte né più né meno che come una colonia
si rafforza e la situazione minaccia di sfuggire di mano ai moderali, finché
Carlo Alberto non concede lo Statuto. Nel nuovo governo costituzionale entrano
anche i patrioti genovesi Lorenzo Pareto e Vincenzo Ricci. Quando appare chiaro
che Carlo Alberto intende porsi alla testa del movimento nazionale, tutta
Genova e tutta la Liguria lo seguono, a parte qualche ottuso settario il cui
repubblicanesimo fa ormai velo al patriottismo. Lo stesso Giuseppe Garibaldi
dichiara, durante una riunione al «Circolo Nazionale», considerato la punta
di diamante del repubblicanesimo genovese: «Io fui repubblicano, ma quando
seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, ho giurato di
ubbidirlo, e seguitare fedelmente la sua bandiera».
Quando la guerra scoppia, il rettore dell'Università, Marchese Tommaso
Spinola, esorta gli studenti ad arruolarsi volontari: «La Patria ha gli occhi
rivolti verso di voi; sia che dobbiate difenderla con le armi, sia che dobbiate
servirla con l'ingegno, non vi sfugga che l'ordine e la libertà sono
inseparabili».
Ma la guerra si conclude male e l'armistizio fa perdere ulteriore fiducia
nella monarchia. Goffredo Mameli, nella poesia «Milano e Venezia», accusa
apertamente Carlo Alberto di essere un traditore e l'agitazione repubblicana
riprende con grande vigore, finche il Re ricomincia la guerra. Questa nuova
fase di guerra finisce in maniera ancora più triste della precedente, con la
sconfitta di Novara e l'abdicazione dello sfortunato sovrano di Torino, l'unico
tra i tanti re e principi italiani che avesse fatto concretamente qualcosa
per l'unità.
La sconfitta di Novara non va giù ai genovesi, i quali vorrebbero continuare
la guerra, una guerra che potesse portare l'unità e la repubblica assieme. Lo
slogan che corre sulla bocca di tutti, lanciato da Goffredo Mameli, è: «La
monarchia ha fallito; ora tocca al popolo!». I circoli moderati vengono presto
zittiti e padroni della piazza genovese diventano quelli repubblicani più
estremisti.
Voci allarmistiche, diffuse ad arte, parlano dell'imminente abrogazione
dello Statuto, di truppe austriache pronte ad occupare Genova con l'acquiescenza
di Torino, il Tricolore avrebbe cessato di essere la bandiera nazionale. La
rabbia popolare allora esplode e Genova insorge, mentre le Iruppe rimaste
(il grosso, infatti, si trova sulla linea del fronte) non sono in grado di
fronteggiare la situazione, anche perché guidate da comandanti che tutto si
possono definire fuorché di nerbo.
Il comandante del presidio era il tenente generale De Asarta, un veterano
delle guerre napoleoniche. Le ultime istruzioni ricevute da Torino gli
raccomandavano estrema prudenza, ed egli, in effetti, così si comportò,
levando le truppe regolari da alcuni tra i più importanti forti che proteggevano
Genova e consegnandoli alla Guardia nazionale. Il Municipio di Genova, oramai
in mano agli insorti, inviò al Parlamento di Torino un messaggio in cui si
offriva ospitalità a quell'istituzione per poter continuare la guerra da Genova.
Il potere effettivo venne preso da un triumvirato costituito dal generale
Giuseppe Avezzana (1797 - 1879), comandante la Guardia nazionale, dall'avvocato
David Morchio (1798 - 1875), un fanatico che era solito promettere la morte
per impiccagione ai suoi avversari politici, e dal deputato Costantino Reta
(1814 - 1858), giornalista e trafficante della politica. Le ultime autorità
statali, generale De Asarta in testa, dovettero abbozzare, sperando che il
triumvirato riuscisse a riportare un po' di ordine. Ma così non fu, ed il
fanatismo predicato da tutti i pulpiti iniziò ad ottenere i primi prevedibili
effetti: per esempio, dalla folla inferocita venne linciata la guardia di
polizia Penco, mentre il maggiore dei carabinieri Angelo Ceppi di Bairolo
venne letteralmente fatto a pezzi e la plebaglia infierì sui suoi poveri
resti (per rivedere scene del genere a Genova si dovrà aspettare l'aprile
del 1945...). Il triumvirato rivoluzionario, poi, ottenne il controllo di
tutti i forti genovesi e l'allontanamento delle truppe regolari con il loro
pusillanime comandante De Asarta.
Questa era, quindi, la situazione a Genova. Per bloccare la rivoluzione
c'erano già stati interessati e semiufficiali approcci da parte francese ed
austriaca: a questo punto, anche a Torino ci si dovette convincere che l'ordine
sarebbe dovuto essere ristabilito dalle baionette piemontesi, se non si voleva
che, a farlo, fossero quelle croate!
Per bloccare la
rivoluzione
c'erano stati approcci
da parte francese e austriaca
Per ristabilire l'ordine, si pensò al generale Alfonso La Marmora, il quale
disponeva di eccellenti truppe sorprese dall'armistizio presso Parma. In poco
tempo la sua divisione, opportunamente rinforzata da Torino fino ad avere una
forza di circa 10.000 uomini, raggiunse le alture che circondavano Genova.
Mentre era per strada gli giunse il decreto reale di nomina a Commissario
Straordinario di Genova: era il 1° aprile 1849.
Il triumvirato rivoluzionario si rese presto conto che con La Marmora, ben
diverso da De Asarta, sarebbe giunto il castigamatti e gli fece recapitare
un messaggio, tramite un milite a cavallo, in cui in pratica lo si considerava
ospite poco gradito e gli si suggeriva di andare a continuare la lotta contro
gli austriaci: La Marmora fece subito arrestare il messo e continuò la marcia
di avvicinamento alla città, convinto di doverla porre in stato d'assedio. Ma,
arrivato alla periferia, si accorse che le cose non stavano proprio come le
dipingeva il governo rivoluzionario. I militi della Guardia nazionale non si
mostravano eccessivamente bellicosi e tendevano ad arrendersi prima ancora
che si fosse sparato, e molti della popolazione civile andavano incontro ai
bersaglieri chiamandoli addirittura liberatori.
La Marmora, impadronitosi audacemente dei forti, intimò al comitato
rivoluzionario che lasciava ventiquattr'ore di tempo ai politici più compromessi
affinché polessero abbandonare la città, poi sarebbe entrato facendosi strada
con ogni mezzo.
Il 5 aprile del 1849
l'attacco iniziò
e fu durissimo
Arrivata la mattina del 5 aprile, l'attacco iniziò e fu durissimo. I civili
presi a sparare sui bersaglieri venivano fucilati sul posto a titolo d'esempio,
e quando le artiglierie dei ribelli iniziarono a sparare sulle truppe regolari
anche il La Marmora diede l'ordine di usare il cannone. Vi furono molti morti
e feriti da ambo le parti: si trattava, è doloroso il doverlo riconoscere, di
un vero e proprio episodio di guerra civile in cui tutte e due le parti in
lotta erano convinte di difendere onestamente la Patria: questo fu il tragico
di tutta la situazione!
I ribelli, chiesta ed ottenuta una tregua di tre ore grazie all'intermediazione
del Corpo Consolare, la violarono assassinando alcuni uomini di una compagnia
di bersaglieri accampata nel giardino di Palazzo Doria. La rabbia dei commilitoni
degli uccisi fu tale che, quando Palazzo Doria fu espugnato, nessuno di coloro
che lo occupavano uscì vivo dalla battaglia.
Da tutte e due le parti si combatté con ferocia e determinazione (è triste
vedere quanta ferocia mettono gli italiani nel combattersi tra di loro...) e,
quando la truppa riuscì a riprendere il controllo di Genova, molti soldati si
diedero al saccheggio (non certo di tutta la città, come certa propaganda ancora
oggi dice, ma solo di quelle case dove maggiormente ci si era opposti ai soldati)
e questi fatti sono stati riconosciuti dallo stesso La Marmora, sia nella sua
relazione ufficiale che nel libro che pubblicò, un quarto di secolo dopo i
fatti, intitolato «Un episodio del Risorgimento italiano»: egli punì i
saccheggiatori che riuscì ad identificare ed anche quegli ufficiali che non
vollero impedire il saccheggio e gli fu «doloroso confessare che, mentre i
valorosi, a prezzo del loro sangue, espugnavano le posizioni difese, altri codardi
derubavano la proprietà d'inoffensivi cittadini».
L'11 aprile Genova era ormai pacificata, anche se persisteva lo stato
d'assedio. In un equilibrato proclama alla popolazione il La Marmora ricordò
al fiero popolo genovese che l'unica vera libertà era quella fondata sui
princìpi di eguaglianza, giustizia ed ordine. Solo su questa strada l'Italia
avrebbe potuto continuare la propria marcia verso l'unità e l'indipendenza.
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