E «La Superba» insorse
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Il Secolo d'Italia aprile 1999

E «La Superba» insorse

ACHILLE REGAZZONI

La Liguria e Genova in particolare dettero un grande apporto alla formazione dell'Italia unita. Fu un contributo sia teorico che di sangue, offerto sui campi di battaglia. La corrente patriottica predominante era quella repubblicana e, dopo che il Congresso di Vienna assegnò al Regno di Sardegna i territori dell'ex Repubblica, non furono molti a rimanere entusiasti

La Liguria e Genova, in particolare, diedero un grandissimo contributo alla formazione dell'Italia unita, un contributo sia teorico che di sangue offerto sui campi di battaglia. La corrente patriottica predominante, però, era quella repubblicana. Genova era stata una repubblica per secoli. «La Superba», veniva chiamata non a caso, ed essere liguri e repubblicani ad un tempo era considerata una cosa abbastanza naturale. Non per niente a Genova nacque Giuseppe Mazzini, Apostolo dell'Unità sì, ma anche convinto alfiere dell'idea repubblicana.

Fu per questo che, quando il Congresso di Vienna assegnò al Regno di Sardegna i territori dell'ex-Repubblica di Genova, non furono moltissimi, almeno tra i liguri, gli entusiasti della nuova situazione. Il Regno di Sardegna non era, poi, ancora quello di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, ma quello di sovrani reazionari e piuttosto proni ai voleri dell'Austria, quali Vittorio Emanuele I e Carlo Felice.

Già nel 1846, quando Genova ospita l'ottavo Congresso degli Scienziati Italiani, si capisce il profondo ed oramai radicato patriottismo della città. Sono cent'anni che gli austriaci sono stati cacciati dalla città grazie al famoso sasso dell'intrepido Balilla, e l'occasione è ghiotta per organizzare manifestazioni, ufficialmente indirizzate contro gli austriaci di ieri (per inciso. alleati dei piemontesi...) ma dirette, in realtà, agli austriaci di oggi. Si evidenzia il giovane poeta Goffredo Mameli, il quale, in una poesia dedicata a quei fatti di un secolo prima, inserisce un ritornello che diverrà assai popolare e convincerà la gente «che se il Popolo si desta / Dio combatte alla sua testa / il Suo fulmine gli dà».

La situazione è incandescente, ed i patrioti liberali e moderati, per cercare di controllare le tendenze della popolazione affinché non degenerino, costituiscono il «Comilalo dell'Ordine», presieduto dal Marchese Giorgio Doria. I patrioti più estremisti, invece, sono riuniti nel «Circolo nazionale» e nel «Circolo Italiano».

Il 7 gennaio del 1848 i patrioti moderati si recano a Torino per persuadere il Re a permettere l'istituzione della Guardia Civica e a cacciare i Gesuiti dalla città. La delegazione viene accolta dal Primo Segretario di Stato, il Conte Borelli, che la tratta con arroganza e cattiveria. La convinzione dei genovesi di essere considerati dal Piemonte né più né meno che come una colonia si rafforza e la situazione minaccia di sfuggire di mano ai moderali, finché Carlo Alberto non concede lo Statuto. Nel nuovo governo costituzionale entrano anche i patrioti genovesi Lorenzo Pareto e Vincenzo Ricci. Quando appare chiaro che Carlo Alberto intende porsi alla testa del movimento nazionale, tutta Genova e tutta la Liguria lo seguono, a parte qualche ottuso settario il cui repubblicanesimo fa ormai velo al patriottismo. Lo stesso Giuseppe Garibaldi dichiara, durante una riunione al «Circolo Nazionale», considerato la punta di diamante del repubblicanesimo genovese: «Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, ho giurato di ubbidirlo, e seguitare fedelmente la sua bandiera».

Quando la guerra scoppia, il rettore dell'Università, Marchese Tommaso Spinola, esorta gli studenti ad arruolarsi volontari: «La Patria ha gli occhi rivolti verso di voi; sia che dobbiate difenderla con le armi, sia che dobbiate servirla con l'ingegno, non vi sfugga che l'ordine e la libertà sono inseparabili».

Ma la guerra si conclude male e l'armistizio fa perdere ulteriore fiducia nella monarchia. Goffredo Mameli, nella poesia «Milano e Venezia», accusa apertamente Carlo Alberto di essere un traditore e l'agitazione repubblicana riprende con grande vigore, finche il Re ricomincia la guerra. Questa nuova fase di guerra finisce in maniera ancora più triste della precedente, con la sconfitta di Novara e l'abdicazione dello sfortunato sovrano di Torino, l'unico tra i tanti re e principi italiani che avesse fatto concretamente qualcosa per l'unità.

La sconfitta di Novara non va giù ai genovesi, i quali vorrebbero continuare la guerra, una guerra che potesse portare l'unità e la repubblica assieme. Lo slogan che corre sulla bocca di tutti, lanciato da Goffredo Mameli, è: «La monarchia ha fallito; ora tocca al popolo!». I circoli moderati vengono presto zittiti e padroni della piazza genovese diventano quelli repubblicani più estremisti.

Voci allarmistiche, diffuse ad arte, parlano dell'imminente abrogazione dello Statuto, di truppe austriache pronte ad occupare Genova con l'acquiescenza di Torino, il Tricolore avrebbe cessato di essere la bandiera nazionale. La rabbia popolare allora esplode e Genova insorge, mentre le Iruppe rimaste (il grosso, infatti, si trova sulla linea del fronte) non sono in grado di fronteggiare la situazione, anche perché guidate da comandanti che tutto si possono definire fuorché di nerbo.

Il comandante del presidio era il tenente generale De Asarta, un veterano delle guerre napoleoniche. Le ultime istruzioni ricevute da Torino gli raccomandavano estrema prudenza, ed egli, in effetti, così si comportò, levando le truppe regolari da alcuni tra i più importanti forti che proteggevano Genova e consegnandoli alla Guardia nazionale. Il Municipio di Genova, oramai in mano agli insorti, inviò al Parlamento di Torino un messaggio in cui si offriva ospitalità a quell'istituzione per poter continuare la guerra da Genova. Il potere effettivo venne preso da un triumvirato costituito dal generale Giuseppe Avezzana (1797 - 1879), comandante la Guardia nazionale, dall'avvocato David Morchio (1798 - 1875), un fanatico che era solito promettere la morte per impiccagione ai suoi avversari politici, e dal deputato Costantino Reta (1814 - 1858), giornalista e trafficante della politica. Le ultime autorità statali, generale De Asarta in testa, dovettero abbozzare, sperando che il triumvirato riuscisse a riportare un po' di ordine. Ma così non fu, ed il fanatismo predicato da tutti i pulpiti iniziò ad ottenere i primi prevedibili effetti: per esempio, dalla folla inferocita venne linciata la guardia di polizia Penco, mentre il maggiore dei carabinieri Angelo Ceppi di Bairolo venne letteralmente fatto a pezzi e la plebaglia infierì sui suoi poveri resti (per rivedere scene del genere a Genova si dovrà aspettare l'aprile del 1945...). Il triumvirato rivoluzionario, poi, ottenne il controllo di tutti i forti genovesi e l'allontanamento delle truppe regolari con il loro pusillanime comandante De Asarta.

Questa era, quindi, la situazione a Genova. Per bloccare la rivoluzione c'erano già stati interessati e semiufficiali approcci da parte francese ed austriaca: a questo punto, anche a Torino ci si dovette convincere che l'ordine sarebbe dovuto essere ristabilito dalle baionette piemontesi, se non si voleva che, a farlo, fossero quelle croate!


Per bloccare la rivoluzione
c'erano stati approcci
da parte francese e austriaca


Per ristabilire l'ordine, si pensò al generale Alfonso La Marmora, il quale disponeva di eccellenti truppe sorprese dall'armistizio presso Parma. In poco tempo la sua divisione, opportunamente rinforzata da Torino fino ad avere una forza di circa 10.000 uomini, raggiunse le alture che circondavano Genova. Mentre era per strada gli giunse il decreto reale di nomina a Commissario Straordinario di Genova: era il 1° aprile 1849.

Il triumvirato rivoluzionario si rese presto conto che con La Marmora, ben diverso da De Asarta, sarebbe giunto il castigamatti e gli fece recapitare un messaggio, tramite un milite a cavallo, in cui in pratica lo si considerava ospite poco gradito e gli si suggeriva di andare a continuare la lotta contro gli austriaci: La Marmora fece subito arrestare il messo e continuò la marcia di avvicinamento alla città, convinto di doverla porre in stato d'assedio. Ma, arrivato alla periferia, si accorse che le cose non stavano proprio come le dipingeva il governo rivoluzionario. I militi della Guardia nazionale non si mostravano eccessivamente bellicosi e tendevano ad arrendersi prima ancora che si fosse sparato, e molti della popolazione civile andavano incontro ai bersaglieri chiamandoli addirittura liberatori.

La Marmora, impadronitosi audacemente dei forti, intimò al comitato rivoluzionario che lasciava ventiquattr'ore di tempo ai politici più compromessi affinché polessero abbandonare la città, poi sarebbe entrato facendosi strada con ogni mezzo.


Il 5 aprile del 1849
l'attacco iniziò
e fu durissimo


Arrivata la mattina del 5 aprile, l'attacco iniziò e fu durissimo. I civili presi a sparare sui bersaglieri venivano fucilati sul posto a titolo d'esempio, e quando le artiglierie dei ribelli iniziarono a sparare sulle truppe regolari anche il La Marmora diede l'ordine di usare il cannone. Vi furono molti morti e feriti da ambo le parti: si trattava, è doloroso il doverlo riconoscere, di un vero e proprio episodio di guerra civile in cui tutte e due le parti in lotta erano convinte di difendere onestamente la Patria: questo fu il tragico di tutta la situazione!

I ribelli, chiesta ed ottenuta una tregua di tre ore grazie all'intermediazione del Corpo Consolare, la violarono assassinando alcuni uomini di una compagnia di bersaglieri accampata nel giardino di Palazzo Doria. La rabbia dei commilitoni degli uccisi fu tale che, quando Palazzo Doria fu espugnato, nessuno di coloro che lo occupavano uscì vivo dalla battaglia.

Da tutte e due le parti si combatté con ferocia e determinazione (è triste vedere quanta ferocia mettono gli italiani nel combattersi tra di loro...) e, quando la truppa riuscì a riprendere il controllo di Genova, molti soldati si diedero al saccheggio (non certo di tutta la città, come certa propaganda ancora oggi dice, ma solo di quelle case dove maggiormente ci si era opposti ai soldati) e questi fatti sono stati riconosciuti dallo stesso La Marmora, sia nella sua relazione ufficiale che nel libro che pubblicò, un quarto di secolo dopo i fatti, intitolato «Un episodio del Risorgimento italiano»: egli punì i saccheggiatori che riuscì ad identificare ed anche quegli ufficiali che non vollero impedire il saccheggio e gli fu «doloroso confessare che, mentre i valorosi, a prezzo del loro sangue, espugnavano le posizioni difese, altri codardi derubavano la proprietà d'inoffensivi cittadini».

L'11 aprile Genova era ormai pacificata, anche se persisteva lo stato d'assedio. In un equilibrato proclama alla popolazione il La Marmora ricordò al fiero popolo genovese che l'unica vera libertà era quella fondata sui princìpi di eguaglianza, giustizia ed ordine. Solo su questa strada l'Italia avrebbe potuto continuare la propria marcia verso l'unità e l'indipendenza.

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