10 aprile 1849 Vittorio Emanuele
II ordina il massacro per soffocare la contestazione contro la monarchia
sabauda
Le bombe dimenticate
Genova martoriata come Belgrado e
Pristina
Centocinquanta anni fa
l'operazione fu condotta dal
generale La Marmora che tornò a
Torino come un eroe. Il numero
dei morti è stato nascosto e si è
fatto di tutto per cancellare
persino i nomi delle vittime |
Nessun giornale
raccontò la tragedie e
tantomeno le violenze
e gli stupri dei
bersaglieri. Che per un
secolo a Genova non
furono più accolti |
LORENZO DEL BOCA
Centocinquanta anni fa, il 10 aprile 1849, le bombe piovevano su Genova. Più
o meno come adesso piovono su Pristina e Belgrado. Non c'erano televisioni per
documentare gli squarci dei proiettili che sfondavano i tetti delle case e i
giornali - di regime - se ne sono stati zitti e non hanno raccontato come i
bersaglieri rincorrevano le ragazzotte per stuprarle. Il numero dei morti è
stato nascosto e si è fatto di tutto per cancellare persino i nomi delle vittime.
Un massacro ordinato da quel galantuomo di Re, Vittorio Emanuele II, realizzato
con ruvida efficienza militare dall'eroe generale Alfonso La Marmora.
La prima guerra d'Indipendenza era appena terminata. L'esercito era stato
brutalmente sbaragliato alla Bicocca di Novara; il re di Piemonte Carlo Alberto
se ne era andato in esilio in Portogallo, «all'ombra del Trocadero» e il
figlio Vittorio Emanuele aveva preso il suo posto. La retorica del Risorgimento
a ogni costo si è impadronita di questa pagina di storia per celebrarla oltre
ogni ragionevole limite e riuscendo a trasformare una sconfitta che faceva
vergogna in una mezza vittoria della quale andare fieri. In realtà, ad
eccezione dei soldati che si lasciano ammazzare senza lamentarsi e, per la
verità, senza nemmeno capire troppo bene la ragione del contendere, gli episodi
di inefficienza burocratica e di inettitudine guerriera furono madornali.
A comandare l'esercito venne assunto Wojciech Chrzanowski con la noncuranza
con cui oggi si ingaggia all'estero l'allenatore di una squadra di calcio. Il
nome di questo generalissimo era impronunciabile in italiano e per la verità
lui, in italiano, non era in grado di dire una parola. Occorreva l'interprete.
Gli uomini dello stato maggiore si consumarono in rivalità e ripicche personali
tanto che la vera battaglia non fu combattuta sul campo ma in discussioni
polemiche davanti alle cartine - incomplete - della zona del Ticino. La
disorganizzazione fece in modo che alcuni comandanti di reparti ricevettero
l'ordine di assumere il comando quando la guerra era già finita. Non c'erano
fucili per tutti. I carri con il pane furono fermati nelle retrovie con il
risultato che gli uomini restarono a digiuno per tutto il tempo. E se ne
stettero in disparte pure gli infermieri che, non gradendo di rischiare una
schioppettata per curare i feriti, preferirono lasciare agonizzare quei
poveretti sui prati della «brumal Novara».
Come evitare le polemiche del giorno dopo?
Un focolaio di contestazione si sviluppò a Genova che per antichi umori
repubblicani si sollevò contro la monarchia. I liguri, da sempre, si
collocavano su posizioni critiche nei confronti di Torino. Interpretando prima
del tempo i temi di un federalismo «alla Catalana», si domandavano perché
dovevano pagare tasse per mantenere la corte sabauda inutilmente costosa: e
credevano che non convenisse loro mantenere un esercito di dimensioni
spropositate per le necessità di un regno minuscolo. In quel 1849 la
contestazione si era arricchita di argomenti più attuali: protestavano per la
conduzione della guerra, la decisione di non combattere più e di proporre un
armistizio disonorevole la neghittosità di un re faceva il contrario di quello
che dichiarava.
Parole, per strada e nei bar, se ne consumarono a vagonate ma atti di vera
insubordinazione non ne furono registrati. Anche la rissa che venne provocata
fra i cittadini di Genova e due ufficiali piemontesi di stanza in città
sembrerebbe piuttosto casuale. Schiaffi, pugni, calci, due sassi raccolti per
terra. Il tenente Angelo Boffo venne colpito a morte e dell'altro si disse che
era stato ucciso. Le guardie regie, spaventate da quell'episodio, considerarono
pericoloso rimanere in città e l'abbandonarono.
Vittorio Emanuele II mandò il generale La Marmora con l'incarico di
«tranquillizzare gli animi», «persuadere» della sincerità del governo
e«distruggere le calunniose insinuazione sparse contro il re». Il militare
fece il militare che, per mestiere, è poco avvezzo a usare le buone maniere del
convincimento mentre si trova maggiormente a suo agio se gli si chiede di
distruggere. E distrusse. Fece piazzare i cannoni sulle colline intorno a Genova
e dalla mattina del 10 aprile, quando le piazze cominciarono a riempirsi di
cittadini, ordinò di bombardare senza riguardo. Dopo tre giorni di pioggia di
fuoco la città poteva considerarsi pacificata al prezzo di 500 vittime fra
uccisi e feriti gravi, la maggior parte dei quali destinati a morire
successivamente.
Questi generali, incerti davanti al nemico vero, tremebondi al primo
incrociare di baionette, più avvezzi alle ritirate, meglio se precipitose, che
alle difese, si scoprirono d'un pezzo solo contro cittadini in doppio petto.
Divorati dal dubbio all'eco delle schioppettate sui campi di battaglia, si
rivelarono implacabili al cospetto dei cori di protesta scanditi da pacifisti
manifestanti. Già l'odore della polvere da sparo li incoraggiava a
indietreggiare: poi le prime scaramucce alimentavano la corrispondenza di
lettere con le quali chiedevamo allo Stato Maggiore l'autorizzazione a ripiegare
e, se appena la battaglia si faceva intensa, voltavano la schiena senza troppi
complimenti. La colpa era sempre di qualcun altro. La contestazione degli
universitari e, più tardi, degli operai che si opponevano alla forza pubblica
brandendo lapis e rotoli di manifesti di contestazione, scatenavano le grandiose
velleità militari dei generali di regime. Allora sì che usavano il fiato che
avevano nei polmoni, non tremava loro la voce quando ordinavano il fuoco e non
tolleravano tentennamenti nei ranghi. I conigli nei campi di battaglia diventano
leoni nelle piazze.
Vale per La Marmora a Genova ma va bene anche per Cialdini, il funambolo
della spada, infuga disorganizzata a Custoza ma intransigente intorno a Gaeta,
per Persano spietato a Napoli e umiliato a Lissa fino a Bava Beccaris e, senza
soluzione di continuità, per la maggior parte delle stellette fino alla seconda
guerra mondiale compresa.
A Genova i bersaglieri furono così spietati da meritarsi l'odio dei
cittadini al punto che per cento anni non poterono celebrare il loro raduno
nazionale in Liguria. E per quel fatto esiste, ancora oggi, un'associazione per
la «Ricostruzione della Repubblica di Genova» che coltiva risentimenti contro
i Savoia e chiede di abbattere la statua di Vittorio Emanuele che sta a cavallo,
in piazza Corvetto. Cero l'esercito non ebbe da superare grandi ostacoli di
strategia bellica, essendo i rivoltosi intellettuali genericamente «di
sinistra» che manifestavano malcontento. I ribelli, con comizi e chiacchiere,
ancorché urlate, non avevano armi né proprie né improprie e furono
massacrati.
La Marmora tornò a Torino come se avesse vinto la guerra, fu elogiato,
premiato con medaglie ed encomi per aver zittito quella «vile e infetta razza
di canaglie».
Il monumento a
Vittorio Emanuele II in Piazza Corvetto che un'associazione "indipendentista"
chiede di abbattere
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