A proposito della
città-stato
FRANCO MONTEVERDE
Fa un certo effetto leggere sui giornali che nel convegno sulle città portuali
tenuto a Voltri alcuni giorni fa, poi anche nei giorni successivi, Pericu abbia
parlato di Genova come di una possibile città-stato, una parola fino ad oggi
nascosta nelle pieghe del lessico politico, sia quello grigio degli uomini di potere,
sia quello rutilante del campione dei padani.
Non che il fatto dispiaccia a chi nella città-stato crede da tempo, anzi. Meglio
una tardiva riscoperta che il nulla, in fatto di riforme istituzionali, al quale ci
ha ormai abituato il linguaggio politicamente corretto. Ciò non toglie che
sia utile mettere qualche puntino sulle i.
La città-stato è un'esperienza nata e cresciuta nel Mediterraneo, da Israele
alla Grecia; poi esportata nel Nord presso le comunità anseatiche, ispirando il
pensiero politico dei padri della rivoluzione americana. Essa presuppone che un
popolo; o più popoli, proprio perché liberi, sottoscrivano un patto di solidarietà
per evitare la tirannia, fosse essa di un solo uomo, di una sola classe, o di una
sola etnia.
Un patto comporta il riconoscimento della pari dignità di tutti coloro che lo
sottoscrivono e che la delega che viene data a coloro che assumono la responsabilità
di gestire la cosa pubblica non sia totale, ma solo parziale. in quanto non
comprende i diritti di libertà dei singoli, delle famiglie e delle comunità, che
non possono essere messi in discussione da nessuno.
Inoltre chi governa deve rispondere alla collettività dell'operato suo e dei
suoi funzionari; nella repubblica di Genova, ad esempio, tutti i politici, dogi
compresi dovevano rispondere del proprio e di quello dei propri sottoposti ai
Sindacatori.
Ed è proprio per questa ragione che la burocrazia era in quella Repubblica tanto
leggera: la classe dirigente non si fidava dei burocrati e non voleva imporre
tasse rilevanti per mantenerla, come avviene oggi con lo Stato Italiano.
Se, come afferma Pericu, a Genova è sufficiente un solo livello di governo, per
evitare l'ingorgo tra regione, provincia, comuni, consorzio del porto e per ridurre
i costi della mano pubblica, vuol dire che i costi e le disfunzioni sono arrivati
ad un punto tale da dover giocoforza andare oltre quello stato uno e
indivisibile di marca parigina, che tanti guasti ha provocato in Francia, in
Italia e in quasi tutto il continente europeo.
Se intende davvero svoltare pagina, Pericu deve fare un primo passo; chieda allo
Stato - centralista, dispotico, burocratizzato e spendaccione dico io - di restituire
la roba che i Savoia hanno rubato, a partire dai beni demaniali.
Da buon genovese, o sardo - nel caso è la stessa cosa - Pericu prenda carta e
penna e chieda allo Stato di restituirci, se vuol restare al solo capitolo dei
beni demaniali portuali, la Lanterna, i moli, le banchine, il palazzo del sale e
gli spazi dove si movimentano le merci, trasferendo al Comune tutte le concessioni
che ha sottoscritto a favore di terzi.
Poi chieda, assieme agli altri sindaci delle città portuali liguri, che le
risorse erariali che vengono rastrellate nei loro scali vengano lasciate qua.
Oggi finalmente si sa, ma solo per merito del Forum che, con l'aiuto di Marongiu,
ha fatto per primo i conti con il pallottoliere e li ha comunicati all'Autorità
Portuale, al Sindaco e al Presidente della Provincia - non a Mori, troppo impegnato
ad affrontate le complessità del governare - per chiedere insieme che quei soldi
vengano utilizzati qua. Si tratta di 2.500, forse 3.OO0 miliardi, smentendo
clamorosamente tutti coloro che affermavano che, abbandonati alle loro responsabilità,
i liguri sarebbero rimasti senza il becco di un quattrino. Ora si sa che una sola
entrata, quella che esce dai porti, raggiunge una cifra superiore ai trasferimenti
che lo stato destina all'intera rete degli enti locali e agli investimenti nelle
infrastrutture. Gli altri se li brucia per pagare una burocrazia sterminata ed
inefficiente. Se Pericu e gli altri sindaci chiedessero che tutte le tasse rastrellate
tra noi poveracci, e non solo quelle portuali, fossero contabilizzate in un conto
solo per farlo leggere a tutti i cittadini, e che quella cifra fosse divisa con
equità tra i liguri e tutti gli altri italiani, non si allargherebbero forse le basi
della partecipazione democratica? Solo così infatti, coloro che producono ricchezza
e pagano le tasse potrebbero fare i conti tenuti ben segreti dalla burocrazia con la
complicità dei politici, e dire la loro sul come spenderli. Non è su questo punto che
re Carlo d'Inghilterra ha perso la testa ed il Parlamento di Westminster ha trionfato,
gettando le basi della democrazia moderna? Se anche Mazzarello, non uso alle
divagazioni lessicali riconosce che in fondo la Liguria è un arcipelago di porti
che potrebbe autogovernarsi con vantaggio nostro e di tutti gli italiani, forse
siamo davvero ad una svolta epocale.
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