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Il Giornale
Giovedì 9 marzo 2006
LA TRIBÙ
Il vero genovese d’oggi?
Desidera soltanto
che il suo nemico perda
Riflessioni sul popolo genovese
L’individualismo esiste come non mai
e inevitabilmente porta alla disastrosa cultura del «maniman»
Gianni Silvestri
La discussione avviata sul Giornale da alcuni lettori, sull'odierna esistenza di un popolo ligure e, in caso affermativo, se questo popolo può essere considerato una nazione meritevole di indipendenza all'interno del territorio italiano, se esiste una identità ligure ed altre dotte questioni che investono le nostre tradizioni, mi ha fatto sorgere la necessità di esprimere alcune considerazioni su Genova ed i genovesi che da tempo mi corrono per la mente. Molte di queste mie riflessioni potranno forse apparire un poco severe o immeritate ma sono sempre stato convinto che sia meglio dire pane al pane che avvolgere i problemi o le proprie convinzioni in un involucro «politicamente corretto». Premetto che pur nato a Genova, posso essere considerato da taluni puristi un «meticcio». Mio padre, ancorché abbia vissuto a Genova sin da ragazzo, era nativo di Verona.
Io ho sempre abitato a Genova anche se ho passato fuori Liguria la maggior parte della mia vita lavorativa. Proprio per questa ragione avendo un poco frequentato altri «popoli», essendo cioè uscito dall'ambito ligure per molta parte della mia vita, mi ritengo sufficientemente titolato ad esprimere qualche considerazione sul «popolo ligure» ed in particolare su quello genovese.
Non so se esiste più il popolo ligure, credo di no. Forse è esistito. Dall'attuale Catalogna sino alle Alpi Apuane, coloro che abitano questa mezzaluna sulle rive del Mediterraneo, hanno un qualcosa di simile. Nel dialetto, nel modo di vivere e di mangiare, in qualcosa che ciascuno di noi sente entro di sé ma non sa cosa sia. Esistono invece ancora una serie di «tribù» liguri e fra queste una delle più importanti è quella genovese.
I genovesi, in passato, come tutti sanno, dopo i secoli bui del Medioevo si sono costituiti in repubblica, hanno combattuto, conquistato, governato molti territori del Mediterraneo, imponendosi per la loro intraprendenza ed abilità nel commercio e nella finanza.
Non erano certo «mammolette». Probabilmente aveva avuto ragione Dante Alighieri nello scrivere quello che ha scritto su di noi. Nell'isola greca di Ikaria, assai vicina alla famosa isola di Chio (Scio) governata per secoli dai Genovesi, un antico canto popolare maledice i genovesi conquistatori.
Pensando a tutto questo mi sono chiesto e mi chiedo «ci sono ancora genovesi di tale stampo»? Se si, dove sono andati? Dove si sono nascosti? Sono forse emigrati in altre parti d'Italia? Forse. Perchè?
Mi faccio queste domande perché in città, da lungo tempo, da troppo tempo, non ne vedo più.
I genovesi sono sicuramente strana gente. Hanno qualità personali invidiabili. Possiedono in massima parte quelle doti che hanno consentito agli abitanti di altre parti del mondo di fare grande una nazione. Alludo agli inglesi ed alla Gran Bretagna. Eppure questa magnifica «dotazione» con il tempo si è svilita. Le qualità dei genovesi, nel corso di 60-70 anni, sono diventate difetti e palla al piede della città. Questa, specialmente negli ultimi 20 anni, dopo aver perduto circa 200 mila abitanti, sta vivacchiando senza obiettivi e, sperando di essere smentito, speranze.
È di questo che desidero sostanzialmente parlare con queste righe.
Come dicevo, i genovesi sono certamente di non facile approccio e individualisti come non mai. Questo individualismo, un tempo superba leva per intraprendere, per rischiare, per vedere avanti, da almeno una sessantina d'anni si è trasformato nel culto del «maniman». Il genovese odierno non vuole vincere una sfida, una competizione, vuole solo che non vinca il suo avversario.
Da questo modo di sentire, di vivere,sono discese e discendono quasi tutte le calamità che si sono abbattute sulla città.
L'immobilismo regna sovrano. Al presente codesto immobilismo viene mascherato anche con il nome di condivisione. Non si fanno le cose che dovrebbero essere fatte nell'interesse della comunità, perché non si vuole che il proponente dell'opera o dell'iniziativa ne tragga lustro.
Coloro che hanno amministrato e amministrano tuttora la città incarnano perfettamente questo nefasto spirito.
Qualche riga più addietro mi chiedevo se esistono ancora i genovesi di antico stampo e se si, dove sono andati.
Non lo so per certo, però ho il sospetto che molti siano emigrati a Milano.
Infatti se vuoi vivere e lavorare con una buona prospettiva devi andartene da Genova. Certo abbandoni il buon clima ed il mare, ma così ti suggerisce il buon senso.
Le grandi industrie, non ostacolate in ciò dalle istituzioni locali, hanno da tempo lasciato Genova. Le grandi famiglie genovesi, simili agli oligarchi di un tempo, hanno venduto per fare cassa, per il solo proprio tornaconto e senza fare, come adesso è moda dire, sistema.
Dove sono i Costa, i Bruzzo, i Piaggio, i Fassio, i Ravano i Gaslini e molti altri?
Adesso un giovane non può fare altro che emigrare, sempre che non ambisca il posto fisso nei carrozzoni comunali o statali e sempre che non conosca qualcuno che possa presentarlo alla piccola oligarchia attualmente regnante sullo status quo.
Status quo di cui tutti si lamentano (il mugugno è libero si dice qua) ma che a tutto questo popolo, sotto sotto, conviene perché gli evita la fatica di mettersi in gioco. Conviene ai politici perché assicura loro il piccolo prestigio della carica, laute prebende e non li impegna nelle decisioni sulle quali potrebbero giocarsi il posto. Conviene agli imprenditori, fatte salve alcune lodevoli eccezioni, perché evitano di pompare denaro nelle loro aziende per innovarle, per cercare nuovi mercati, per creare prodotti ad alto contenuto tecnologico e consente loro di attendere le «provvidenze» dello Stato
(casse integrazioni, contributi europei e non, leggi speciali ecc.). Conviene, purtroppo, anche al personale dipendente ed ai giovani che, drogati da decenni di immobilismo, non hanno più la capacità di ricercare, sacrificandosi, nuove possibilità di lavoro, premiando la mobilità (andare dove il lavoro c'è) o di fare lavori ritenuti non premianti (meglio fare qualcosa, ancorché non esaltante, che ti dia uno stipendio e nel contempo ti consenta di guardarti intorno, piuttosto che attendere qualcosa che non c'è). Conviene, paradossalmente, anche ai pensionati, i soli esenti da colpe, che hanno «già dato» cioè, i quali si trovano a vivere in una città «immobile» ma per loro forse più vivibile.
Confrontiamoci, per esempio con altre realtà.
Prendiamo Milano, pur facendo le debite proporzioni, dove cioè molti genovesi di buono stampo sono emigrati. Gli amministratori di quella città decidono le opere da fare e vivaddio le fanno (metropolitane, passanti ferroviari, fiere, Scala, edifici fieristici, teatri, inceneritori ecc.) senza attendere la manna dello Stato.
Agiscono come faceva Napoleone che ordinava l'attacco anche se i suoi generali gli comunicavano che l'esercito non era ancora pronto, perché diceva, «tanto le salmerie ci seguiranno». Anche un grande presidente della mia società, quando lavoravo, agiva sempre in quella maniera e vinceva le sue battaglie.
Pensate, la famosa Ici a Milano è da sempre al 5 per mille e non al 6,2 o simili come a Genova.
Come faranno a Milano? Come farà il Sindaco di Milano a mantenere l'ATM in pareggio?
Quando sono particolarmente propenso a riflettere sulla nostra città, mi chiedo sempre: perché aziende importanti a livello nazionale non hanno mai ipotizzato di trasferire le loro sedi direzionali a Genova? Nella nostra città troverebbero risorse qualificate, ottimo clima e ... purtroppo null'altro. Quelle che avevamo ce le siamo fatte scappare (ultima a fuggire Eridania).
Quando dobbiamo volare all'estero facciamo un'ora e più di macchina per recarci a Malpensa, Linate, Nizza e anche a Orio al Serio o a Pisa.
Proviamo un momento ad immaginare se tra Milano e Genova ci fosse una autostrada a tre corsie o più ed un treno ad alta velocità che consentissero di andare, da centro città a centro città, in un'ora. Autostrada e treno costruiti in cinque anni di lavori non ostacolati da velleitarie richieste di qualche piccolo comune o da qualche falsa remora ambientale sponsorizzata da politici in cerca di visibilità.
Forse il flusso di popolo che lavora e che, anche ogni giorno, sale verso Milano dalla nostra città, potrebbe invertirsi.
UNO SPACCATO del centro
storico |
Una dote particolare che contraddistingue i Genovesi e li rende unici è l'essere riservati, fraternamente burberi, di poche parole e con tendenza all'understatement (stare sotto le righe, dico bene?). A Genova non è facile vivere per uno straniero (in determinate circostanze per un genovese della Foce è straniero un genovese di S.P.d'Arena e viceversa). La città è fatta a strati e gli abitanti dei diversi strati non comunicano fra loro se non per questioni essenziali, lavoro per esempio. Dicono che sia così anche a Boston (Mass., Usa).
Farsi amico un genovese molte volte richiede un'intera vita. È difficile entrare in casa sua, in confidenza. Quando però il genovese ti addotta come amico, questo è per sempre. Non ti tradirà più e ti aiuterà in ogni occasione della tua vita. Non è vero che è costituzionalmente avaro, è solo attento, «interessato » come usiamo dire in dialetto. Se ti è amico è capace di generosità fuori del comune.
Da questa riservatezza e chiusura del suo carattere, derivano affidabilità, sostanziale onestà, voglia di lavorare, schiettezza nei rapporti personali.
Come detto prima, quando ho riferito della degenerazione del nostro individualismo, anche queste ultime qualità che i genovesi possiedono e che ho adesso illustrato, si sono trasformate, da qualche tempo, in pesanti difetti.
In moltissime occasioni il genovese riservato o un poco burbero e di poche parole si trasforma in scostante personaggio a cui tutto è dovuto e che nulla vi concede.
Non mi piace generalizzare, ma molte, troppe volte, per esempio, nei nostri esercizi commerciali, il cliente deve presentarsi come suole dirsi, con il cappello in mano, per mettere a proprio agio il venditore, anziché il contrario. La cura del cliente non pare una cosa importante.
Emblematico in proposito è quanto una volta accadde a mia moglie in quel di Portofino.
Visitando con amici americani un negozio di abbigliamento sulla via, una vendeuse locale, ritenendo che nessuno della compagnia parlasse italiano, se ne uscì con l'infelice battuta «entrano, guardano e non comprano mai niente!». Al che, mia moglie, qualificatasi per quello che era e cioè italiana, le rispose per le rime.
Ebbene questo atteggiamento è tuttora presente in molti di noi malgrado sia grandemente nocivo al nostro interesse.
Penso però che solo una sana analisi di coscienza ed un rinnovato, pragmatico, impegno di tutti possa consentire il superamento dei beceri paletti posti allo sviluppo della città ed alla speranza, dalle ideologie falsamente sociali e conservatrici.
L'occasione fortunatamente adesso c'è per dimostrare che la città non sta morendo.
È il cosiddetto «affresco» che Renzo Piano ci ha regalato, da cantierizzare subito e realizzare entro 5,7 anni, pena il declassamento e l'emarginazione definitiva.
Genova deve gettare il cuore oltre l'ostacolo, come faceva Napoleone. Le salmerie seguiranno, siatene certi.
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