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Il Giornale
Giovedì 27 aprile 2006
CONTROCORRENTE
Per il mondo Govi fu un perdente
«Ma se ghe penso» ha riportato in patria i pensionati quando invece servivano le baionette
Bartolomeo Rottondo*
Caro Lussana, l'intervento di Giunio Lavizzari contiene numerose affermazioni che condivido, anche quale (modesto, si dice sempre così) autore di teatro in lingua genovese.
Condivido, in primo luogo, la sua dichiarazione di sentimento: sono ligure perché sento di esserlo, sento di amare quest'aria, queste tradizioni, questi sapori... È un sentimento personale, intenso, tutt'affatto non politico che può (oggi si dice) spalmarsi su innumerevoli scelte politiche diverse. Può diventare politico solo per reazione, se, cioè, venisse conculcato. Condivido, altresì (e come non potrei, vista la mia qualifica?), l'affermazione che il modo migliore per conservare la lingua genovese (se la lingua è un dialetto con l'esercito, Genova l'esercito o quanto meno, la flotta, li ha avuti) sia il teatro (ma anche la canzone, il folklore e simili espressioni dell'anima di un popolo), meglio, o più piacevolmente, di qualsiasi corso accademico (anche se non ne va sottovalutata l'importanza).
Ma poiché non si interviene (e si disturbano lettori e redattori) solo per dire son d'accordo, voglio fare alcuni appunti all'amico Giunio:
Gilberto Govi |
a) Ma se ghe penso. Al di là del valore artistico, sul quale non oso pronunciarmi, ritengo il messaggio di quella canzone assolutamente esiziale per l'immagine di una città. Un vecchio senza più futuro, lascia la parte vitale della famiglia in Sud-America e torna a Genova per viverci una vecchiaia che spera serena «na branda attaccà a-i ærboi ad uso letto» e qui essere seppellito «à possâ e osse donde o l'è o mæ madonnâ». Fu il messaggio politico del ventennio per convincere gli emigranti a rientrare in patria, ma, anche sotto questo profilo, di scarsa utilità: servivano le baionette e non i pensionati. Mi ha sempre disturbato che sia considerata la canzone immagine della città; ben diversa, per esempio, dalla bela madonnina di Milano.
b) Govi. Chi può negare la grandezza attoriale del grande Gilberto? Ma io ricordo un intervista dell'ex direttore del Mercantile, nonché ottimo studioso dell'economia cittadina, Giulio Giacchero, il quale andando controcorrente rispetto ai (talvolta sbrodolosi) encomi, disse che l'immagine che Govi esportò in Italia e nel mondo di Genova e dei suoi cittadini era un'immagine perdente: quasi sempre un piccolo uomo, vessato dalla moglie, magari onesto, ma più per incapacità a non esserlo che per scelta, un borghesuccio quasi mai affacciato alla finestra del salotto di casa, se non per borbottare: che tempi! Condivido quella critica, assolutamente non artistica, ma sociale. Sul piano del Teatro, l'influenza di Govi, morto lui, a mio parere, non è positiva. Proprio la sua grandezza ne ha fatto un mito da imitare costantemente, rievocando sempre i suoi copioni, i suoi stilemi recitativi, la sua non ricerca al limite del ripudio di qualsivoglia nuova esperienza. Inoltre gli va imputato il suo rifiuto a formare una scuola. Vanno perseguite strade nuove nei testi, nelle regie, nelle interpretazioni e Govi, spesso, è un macigno, sulla strada dell'innovazione.
Credo che qualcosa di quello che scrivo, Lavizzari lo condivida. Ma proprio perché ha anche un ruolo pubblico, quale gestore di uno spazio teatrale importante, quale l'ex teatro della Gioventù, vorrei stimolarlo a incrementare le forze nuove e propositive nel campo dello spettacolo in lingua locale. Sono convinto che il teatro dialettale abbia ancora un grande spazio, ma deve prescindere dai più o meno coscienti laudatores temporis acti. Con immutata simpatia.
*alias Angelo Onorato Freda
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