Il Giornale
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IL RITO ANTICO della messa recitata in latino |
Ma la tradizione popolare non può essere confusa con la Tradizione della Chiesa Cattolica che mai, in molti secoli, ha celebrato il Santo Sacrificio se non nella lingua liturgica, il latino, lingua sacra, dotta, adatta per le cose di Dio.
Questo è il cuore della questione la perdita del senso del sacro. Che vuol dire separato, su un altro piano rispetto alle cose umane, distinto da esse come il cielo è distinto (e distante) dalla terra.
Questa perdita si osserva anche per il senso dello spazio sacro: sempre più le chiese sono luoghi dove si chiacchiera, si gironzola, si entra come in un museo per guardare le opere d’arte, si applaude come a teatro per sentire un concerto, si partecipa distratti a una festa di nozze.
Si deve prendere atto che, una volta tradotto (e tradito) il rito latino millenario, questo tesoro vivente della secolare sapienza della Chiesa, ogni invenzione e ogni profana trovata può essere proposta e approvata, sia dalla gerarchia, sia dai fedeli, che hanno smarrito il senso del sacro anche nel senso di intangibile. A nessuno è permesso toccare cioè manipolare, adattare, modificare, innovare, sperimentare ecc. Questo comandava il papa San Pio V nel 1570, promulgando il Messale Romano che normava la molteplicità dei riti precedenti che non avessero più di due secoli.
Dov’è quella prudenza, quella saggezza, quella venerazione della lex orandi giunta a noi attraverso i tempi e la storia?
Con quale folle presunzione si pretende di cambiare quello che non si è neppure ancora compreso nella sua meravigliosa profondità?
Dove e come l’uomo d’oggi potrà saziare la sua fame di Dio, la sua sete di mistero?
Con la Messa in «zeneize»? Non lo credo.
Auspichiamo vivamente che il Papa conceda al più presto la libera celebrazione della Messa in Rito Antico e per questo preghiamo.
Francesca Poluzzi
Egregio Lussana, la notizia di una Messa in dialetto genovese, da celebrarsi in Santa Caterina di Portoria, mi ha gravemente turbato ma può essere lo spunto per una rinnovata riflessione sulla realtà della Chiesa e più in particolare sulla liturgia, cuore della fede. Non si tratta di avversare il dialetto in quanto tale, anzi: chi vede nella conservazione delle tradizioni il fondamento dell'identità di un popolo e le radici a cui restare ancorati, non può che amare e valutare grandemente questa lingua parlata così espressiva, vivace e colorita.Ma la tradizione popolare non può essere confusa con la Tradizione della Chiesa Cattolica che mai, in molti secoli, ha celebrato il Santo Sacrificio se non nella lingua liturgica, il latino, lingua sacra, dotta, adatta per le cose di Dio. Questo è il cuore della questione: la perdita del senso del sacro. Che vuol dire separato, su un altro piano rispetto alle cose umane.Questa perdita si osserva anche per il senso dello spazio sacro: sempre più le chiese sono luoghi dove si chiacchiera, si gironzola, si entra come in un museo per guardare le opere d'arte, si applaude come a teatro per sentire un concerto, si partecipa distratti a una festa di nozze. Si deve prendere atto che, una volta tradotto (e tradito) il rito latino millenario, questo tesoro vivente della secolare sapienza della Chiesa, ogni invenzione e ogni profana trovata può essere proposta e approvata, sia dalla gerarchia, sia dai fedeli, che hanno smarrito il senso del sacro anche nel senso di intangibile. A nessuno è permesso toccare cioè manipolare, adattare, modificare, innovare, sperimentare ecc. Questo comandava il papa San Pio V nel 1570, promulgando il Messale Romano. Dov'è quella prudenza, quella saggezza, quella venerazione della lex orandi giunta a noi attraverso i tempi e la storia? Con quale folle presunzione si pretende di cambiare quello che non si è neppure ancora compreso nella sua meravigliosa profondità? Dove e come l'uomo d'oggi potrà saziare la sua fame di Dio, la sua sete di mistero? Con la Messa in «zeneize»? Non lo credo. Auspichiamo vivamente che il Papa conceda al più presto la libera celebrazione della Messa in Rito Antico e per questo preghiamo.
Mauro Buzzetti
Egregio dottor Lussana, faccio riferimento al dibattito che si è creato sulle pagine del Giornale in merito alla celebrazione della Santa Messa in dialetto genovese, e al riguardo desidero esprimere alcune mie considerazioni.
La Liturgia in Latino è no-stra cultura di base!
La nota della dottoressa Francesca Poluzzi, che condivido, mi sembra di particolare attualità: la Santa Chiesa Cattolica, attraverso il nuovo Sommo Pontefice è in costante cammino per la riaffermazione della sua centralità e universalità.
Colonia ci ha insegnato, fra l’altro, che la Liturgia in latino è stata una ulteriore modalità di fraternità fra i giovani, ciascuno diverso dall’altro per in-dividualità, cultura, razza ma insieme nell’unica vera Chiesa e che non hanno certo ad esempio quel «povero» Giuliani sulle cui vicende sarebbe meglio stendere un pietosissimo velo.
Oggi purtroppo paghiamo le carenze di certi giovani (forse anche Andrea Gallo fu giovane un tempo!), divenuti pure presbiteri in frangenti di crisi vocazionali, ma che restano senza quell’adeguata cultura, anche della lingua latina, necessaria per valorizzare il senso della Tradizione.
La Costituzione Conciliare Sacrosantum Concilium ci ricorda che la Liturgia è culmine e fonte dell’azione della Chiesa; ed a mio avviso il latino sa rendere, senza nulla voler togliere all’azione liturgica in lingua locale che può coesistere, il concetto della radice culturale cristiana di cui è mancante quell’Europa che nel tentativo di egemonia, mercantile e monetaria, si sente, finanche affine alla Turchia, tanto da poterne ipotizzare un'adesione.
Gianrenato De Gaetani
Rapallo
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