Ecco i gioielli che i Savoia rivogliono
retroscena |
Pierangelo Sapegno |
Sono così belli, come lo è la storia quando è finita, e la guardi in un
quadro, e la leggi in un libro. I gioielli di casa Savoia sono a modo loro
una storia, vecchia e nuova. Stanno chiusi in un cofanetto a tre piani,
sigillati alla Banca d'Italia. C'è una collana a dieci fili con 684 perle,
c'è il diadema di Musy per la regina Margherita che tiene incastonati «541
diamanti del peso di 1167 grani, pari a 292 carati, 11 perle a goccia di
720 grani e 64 perle circolari del peso di 975 grani», come scrive Maria
Gabriella di Savoia nel suo libro «Gioielli di casa Savoia». Valgono
tremila miliardi. Poi c'è chi dice molto meno, e c'è chi invece, vicino ai
Savoia, giura che potrebbero valere anche cinquemila. È comunque una
cifra enorme. Alla fine, non dovrebbe sorprenderci troppo se fosse davvero
contesa fra Stato e Famiglia. Raccontano anche una storia fatta di
splendori, di ricchezze e di tragedia, quando negli ultimi giorni cupi e
terribili della guerra vengono pure nascosti e murati per essere salvati
dal saccheggio di tutti. Fanno parte di un Tesoro ancora più vasto, che
potrebbe rientrare nelle trattative in corso fra governo e Savoia, sul
loro rientro in Italia. Da Ginevra, le trattative le smentiscono. Da Roma,
le fanno filtrare. Vediamo di capirci qualcosa.
Innanzitutto il tesoro. Quello dei gioielli, e quello dei beni. Sono due
cose distinte, ma forse non divise. I gioielli raccontano molto nella loro
bellezza. Ci sono diademi splendidi. Collane, bracciali, spille. Molti sono
della Regina Margherita, che aveva un'eleganza vistosa, sovraccarica, che piaceva
molto agli italiani. Meno ai francesi. Ernest Tissot scriveva: «La regina passa
adornata come una statua votiva...». Lei non ci faceva caso. Continuava ad
accumulare. Dal libro «Gioielli di casa Savoia», di Maria Gabriella di
Savoia e Stefano Papi: «Margherita ricevette dal re Vittorio Emanuele II,
come dono di nozze, un elegante diadema di diamanti disegnato a tralcio di
foglie di lauro centrato da una margherita. Era stato acquistato presso il
gioielliere Mellerio di Parigi». «Umberto regalò molti gioielli alla
moglie e con certezza sappiamo, da una nota della Regina Margherita, che
la grande collana a dieci fili con infilate complessivamente 684 perle, le
fu donata nell'arco di 4 anni». È la collana di perle più belle e
importante della collezione della regina. Invece, Vittorio Emanuele aveva
regalato alla Regina Elena un diadema, creazione di Musy: «Disegnato come
un intreccio di fiocchi in diamanti, sulla sommità vi erano 5 smeraldi
circondati di diamanti provenienti da un bracciale della regina
Margherita». Anche Maria José aveva uno splendido diadema di perle e
diamanti, ma l'aveva ereditato dalla sua madrina, l'imperatrice Carlotta
del Messico: «Era stato modificato alla fine degli Anni Venti con
l'aggiunta di una parte posteriore con fermezza, in modo che la
principessa potesse usarlo a foggia di bandeau». Per le nozze, invece, il
principe Umberto aveva incaricato il gioielliere Filippo Chiappe di
realizzare «un gruppo di gioielli in diamanti da presentare alla futura
sposa, fornendo lui stesso parte delle gemme e suggerendo all'orefice con
alcuni schizzi, i motivi per la realizzazione finale. Tra questi
figuravano una lunga collana, una coppia di clip e degli orecchini
pendenti, gioielli molto in voga tra gli Anni 20 e 30».
Tutti questi gioielli a chi appartengono? Ai Savoia: li hanno lasciati in
deposito allo Stato, rispondono dallo studio di Giuseppe e Luigi Morbilli, i
legali di fiducia della Famiglia. Però Dagospia, il sito internet di Roberto D'Agostino, ha reso
noto on-line un resoconto verbale «dell'incontro
avvenuto a Ginevra il 18 novembre scorso tra una delegazione di Palazzo Chigi,
Vittorio Emanuele e il figlio Emanuele Filiberto proprio al fine di
definire il quadro del ritorno in Italia», com'è scritto sulla pagina
intestata Presidenza del Consiglio arrivata non si sa come nelle mani di
D'Agostino. Motivo del contendere: i Savoia dovrebbero ritirare il ricorso
presentato a Strasburgo, in cui chiedevano la restituzione dei loro beni.
Avevano promesso di farlo. Non l'hanno ancora fatto. Perché? «Ma perché
noi vogliamo che resti una dichiarazione formale sull'ingiustizia compiuta
ai nostri danni», rispondono da casa Savoia. «Solo questo. Non ci sono
altri motivi». E Iannetta, il segretario dell'Istituto della Real Casa,
aggiunge che «ci sono soltanto ragioni di salute dietro questo ritardo.
Tutto il resto o non ha senso o sono calunnie».
Ci sono i gioielli. E poi? Del tesoro farebbero parte il castello di Sarre,
alle porte di Aosta, con una villetta e 5 ettari di terra, il castello di Pollenzo,
in provincia di Cuneo, patrimonio dell'Unesco, tre tenute di caccia in Valle Gesso,
sempre nel cuneese, le tenute laziali di Capocotta e Castelporziano (oggi
utilizzata dal Capo dello Stato), Villa Savoia a Roma, e il castello di
Racconigi, un gioiello di architettura fiamminga protetto dall'Unesco. La
tenuta presidenziale di San Rossore, palazzi e ville a Pisa e Torino,
l'intero arredamento del Quirinale e persino la basilica di Superga a
Torino. Dallo studio di Morbilli fanno sapere che il principe «non intende
rivendicare alcunché». Altri ambienti, invece, vicino alla famiglia,
sostengono proprio il contrario: «I gioielli non c'entrano niente. Quelli
spettano di diritto ai Savoia. Piuttosto, potrebbero chiedere la
restituzione dei beni, degli arredi, dei quadri, delle tenute». I
gioielli, appunto. Sono il tesoro della Corona: un cofanetto foderato di
velluto azzurro a tre piani contenente 15 gioielli di brillanti (circa
3500) e perle (circa 2000). Fu consegnato il 5 giugno del 1946, dopo il
voto del referendum e 8 giorni prima dell'esilio, dal ministro della Real
Casa Falcone Lucifero a Luigi Einaudi, allora governatore della Banca
d'Italia. Nella ricevuta rilasciata al ministro c'è scritto: «Da
restituire a chi di diritto». E chi ne ha diritto? «Beh, chi ha la
ricevuta», afferma Sergio Boschiero, segretario dell'Unione monarchica». E
poi, su questo scrigno, «lo Stato non ha mai avanzato pretese». Vero.
Però, l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga aveva
puntualizzato, dalle colonne di Panorama: «Su questi beni si è abbattuta
la disposizione transitoria della confisca, solo per la quota che spettava
a Umberto. Quindi, chi potrebbe rivendicare la proprietà non è Vittorio
Emanuele, ma sono le sorelle del padre».
Resta il fatto che questo è solo quel che rimane del tesoro. Pochi mesi
prima dell'8 settembre, il re aveva fatto trasferire a Pollenzo 363 casse,
che contenevano 210 quintali di oggetti preziosi, storici e familiari. I
tedeschi ci misero le mani sopra e molti di loro saccheggiarono le casse
prima che il comando germanico le restituisse al prefetto di Cuneo. Il
sottosegretario alla presidenza del Consiglio Barracu, con un gesto
demagogico, ordinò che il tesoro fosse distribuito ai profughi e che si
doveva fondere l'oro e l'argento per farne lingotti. Dentro, c'era di
tutto: dipinti, documenti, ricordi di famiglia e una parte della famosa
collezione di quasi 200mila monete, moltissime d'oro, di epoca romana e di
inestimabile valore storico. Gli estimatori dissero che valeva più quella
collezione di tutte le entrate del Re in 50 anni di Regno. Alla fine della
guerra, in un telegramma a De Gasperi, Umberto le donò al popolo italiano.
Quelle che si erano salvate. Nel 1950, a Milano, durante il famoso
processo Stirner, venne fuori che il commissario per la confisca dei beni
della casa reale - il signor Stirner, appunto - era riuscito a salvare dal
precedente saccheggio 135 casse, compresa la raccolta di monete. Solo che
in quei giorni ci fu pure uno strano movimento di antiquari da tutta
Italia per accaparrarsi i pezzi migliori dei Savoia. Glieli svendevano.
Per tutti i pizzi della regina Margherita pagarono 200mila lire, per un
vaso di Sassonia 16mila. Per avere un'idea, a quei tempi, un giornale
costava 4 lire, una tazzina di caffè 20. Era la Storia d'Italia finita dal
rigattiere. L'ordine era di Barracu, disse l'imputato. Non lo obbedì per i
gioielli. Prese la valigia e la depositò in banca. Stirner fu assolto
anche per questo.
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