[ «Alessandro De Stefanis
studente sulle barricate ]
Nell'aprile del 1849 la città, insorta dopo l'armistizio
di Vignale con gli austriaci, venne presa d'assalto dall'esercito piemontese
Il sacco di Genova
L'orda dei bersaglieri di La Marmora
A mezzogiorno del 5 aprile
'49 le batterie dei piemontesi cominciarono a sparare sulla città. Il
bombardamento durò 36 ore provocando incendi, crolli, devastazioni sui quartieri
più poveri e una moltitudine di vittime e feriti. Poi entrarono in azione
i bersaglieri e furono saccheggi, stupri e violenze di ogni genere contro
gli insorti.
Vittorio Emanuele II lodò La Marmora per
la presa della città |
Avevamo lasciato
La Marmora accampato in Valpocevera con i suoi trentamila soldati
armati. Genova si era sollevata contro il governo di Torino per protesta
contro l'infausta conclusione della guerra contro l'Austria, siglata
dall'umiliante pace firmata dal nuovo re, Vittorio Emanuele II, a
Vignale. Fiaccato dalla disfatta di Novara, che era costata il trono a
Carlo Alberto, il Piemonte aveva accettato condizioni umilianti pur
di porre fine alle ostilità. Fra l'altro si permetteva a un presidio
austriaco di ventimila uomini di stazionare sul territorio piemontese.
Genova, città repubblicana di forti sentimenti antitedeschi, ci
vide l'annuncio di una prossima invasione. La gente ricordava
ancora l'occupazione austriaca di un secolo prima, il sasso scagliato
da Balilla. Sapevano, i genovesi, che la libertà conquistata va
difesa, anche con le armi. Si armarono e scesero in strada, costrinsero
sulla difensiva il comandante della Divisione militare, De Asarta,
che già aveva chiesto aiuto a Torino. Una folla di migliaia di popolani,
giovani, donne, persino preti e frati, conquistò i punti strategici: la
Darsena, alcune fortificazioni che sorgevano sulle colline circostanti.
Affiancati dalla Guardia Nazionale, la gente si preparava ad affrontare
gli austriaci. Si trovò di fronte i "fratelli" piemontesi in divisa, i
soldati del generale Alfonso Lamarmora. Piegata la resistenza dei difensori
dei forti, l'alto ufficiale ordinò il bombardamento della città. Altri
morti, altre rovine, altro odio. Ubriachi di rancore, guidati da un
ufficiale che detestava i genovesi, i bersaglieri entrarono a Genova
abbandonandosi ad ogni tipo di nefandezze. Venne scritta una delle più
tetre e squallide pagine della storia risorgimentale. "Il Secolo XIX" la
ripercorre con voi.
R. Par. |
Accampato con trentamila uomini in Valpolcevera, La Marmora si preparava
a dare l'assalto alla città. Secondo l'Anonimo di Marsiglia (testimone oculare
dell'insurrezione) il comandante piemontese aveva promesso ai suoi soldati libertà
di saccheggio. In un libello apologetico ed autocelebrativo, pudicamente
intitolato: "Un episodio del Risorgimento", La Marmora esibisce questa
barcollante autodifesa: se non fosse giunto, alla testa delle truppe, a "liberare"
Genova dai sediziosi che l'avevano presa in pugno, si sarebbe rischiato
«di vedere gli Austriaci e i Francesi fare a gara per aiutarci e giungere
forse anche contemporaneamente, gli uni per terra, gli altri per mare, sotto
le mura di Genova». La Marmora aveva quindi "salvato" la città riempiendone
la strade di morti e le case di soldati votati al saccheggio e alle violenze
sui cittadini inermi. Di gratuite violenze si macchiarono anche i genovesi.
Il 3 aprile una folla inferocita riconobbe (sebbene in abiti borghesi), il
maggiore dei Carabinieri Ceppi, lo linciò e fece scempio del cadavere.
«Alle due del pomeriggio (4 aprile), il battere della generale e i rintocchi
delle campane chiamavano il popolo all'armi. - scrive l'Anonimo - Correa voce
che i bersaglieri si fossero per sorpresa impodestati del forte di S. Benigno. Ma
questa voce, lungi dall'abbattere l'animo dei popolani, era loro anzi di sprone
a riacquistarlo». Un falso ordine di Avezzana - propagato in realtà dai
piemontesi - fece accorrere diecimila armati a difesa della Porta Pila, lungo il
Bisagno, con la scusa che l'assalto a San Benigno era una manovra diversiva. Il
vero sforzo dei regi viceversa si stava producendo proprio a ponente, provenendo
da Sampierdarena. Fra gli insorti circolava un gran numero di spie e provocatori
al soldo dei piemontesi. Un tale R. si offerse ad Avezzana di guidare la difesa
del forte delle Tenaglie. Il comandante purtroppo accondiscese e il traditore,
il giorno 3 aprile, prese possesso del forte, rifiutando, il giorno appresso,
l'aiuto portato dalla Compagnia N.N., con la scusa che i suoi 138 uomini sarebbero
bastati alla difesa. Quindi si procurò, con l'inganno, l'ordine firmato dal
colonnello Federico Campanella, dello Stato Maggiore, di spalancare le
porte del forte ad una fantomatica Compagnia se questa fosse stata respinta dai
piemontesi. Senonché, al posto dei soldati amici, furono i bersaglieri ad irrompere
nel forte delle Tenaglie.
Frattanto La Marmora aveva inviato un messo ai genovesi con l'intimazione alla
resa. La risposta fu un grido solo: Genova «si sarebbe sepolta fra le sue
rovine anziché cedere così vilmente». Le difese presero posizione alla
batteria di San Teodoro paventando un attacco alle spalle condotto dal forte
delle Tenaglie attraverso la porta degli Angioli. Le batterie della Darsena,
del Molo, della Cava, di Monte Galletto aprirono un fuoco tremendo in direzione
di San Benigno, dove si erano attestati i soldati regi, facendone strage. Dal
mare la barca cannoniera la "Valorosa" sparava sulla costa da Sampierdarena.
Le mura di Granarolo si riempivano di volontari pronti a combattere, rinforzati
dalla Legione Universitaria. Con due pezzi da sedici pollici si sparava anche
contro un'uccelliera al Lagaccio, costringendo a sgomberare un manipolo di
bersaglieri. Nella notte Lorenzo Pareto ordinò di ritirarsi sul Forte
Begato.
Alla porta della Lanterna, ordini e contrordini (spesso fasulli) si incrociavano
gettando nello scoramento i difensori (110 artiglieri e 100 fra Guardie nazionali
e popolani). Alle 4, di fronte all'attacco dei regi, fuggirono via mare. Il Conte
N.N., avvicinatosi con la bandiera bianca alle mura per parlamentare a nome di
La Marmora, venne respinto. Un ufficiale e alcuni bersaglieri che avanzavano
con un vessillo bianco furono centrati e disintegrati da un colpo di cannone
sparato dal Molo Vecchio. Si presentò La Marmora in persona che si accorse come
le difese fossero sguarnite. Ordinò l'assalto e gli otto (!) difensori dovettero
trovare scampo via mare. Insediatisi alla Lanterna, i soldati regi volsero contro
la città le batterie che vi avevano trovato intatte e neppure il coraggioso
tentativo di 50 polacchi (dei 160 accorsi a battersi a Genova) valse a sloggiarli.
Nei successivi attacchi si distinsero per crudeltà i bersaglieri comandati da
Alessandro La Marmora, fratello maggiore del comandante in capo.
Caduta anche la porta di Granarolo, i regi rintuzzarono un attacco proveniente
dal Begato, nel quale si distinse il barcaiolo Nicola Ghio, detto Guerra.
Le truppe regie strinsero d'assedio le pendici del Begato, i genovesi alle otto
del 5 aprile dovettero sgomberare il palazzo e la piazza del Principe, presa
d'assalto da diversi battaglioni nemici. Si rinserrarono dietro le barricate
erette a Porta San Tomaso, dalla quale si sparava ad alzo zero contro la cavalleria
che invano si slanciava all'attacco. Si riconquistò alla baionetta il palazzo
del Principe. L'Anonimo cita ammirato una bella cortigiana, I.B. «le cui
mollezze riscattava ampiamente generoso sentire e forte amor cittadino. Fremente
d'ardor bellicoso lanciavasi prima in quel vasto palagio a rintracciare il nemico
e del suo più che maschio ardire meravigliò lo stesso Avezzana». Il palazzo
Doria venne tre ore dopo riperso e subito bombardato dall'alto dagli insorti,
appostati alla barricata di San Tomaso, da Monte Galletto e dalla Specula.
Altri personaggi si distinsero in quelle giornate di sangue. Uno è Gio Batta
Chiappara, detto il Moscettiere, console dei facchini del Ponte della Legna.
Già avanti negli anni, posto a guardia del magazzino delle polveri sopra il
Lagaccio, sorpreso dai bersaglieri, si offerse loro come ostaggio e riuscì a
scampare. Frattanto si stipulava un fragile armistizio fra un gruppo di insorti
e i soldati di La Marmora. Nella lotta era entrata anche una nave britannica,
la "Vengeance", ormeggiata al porto, al comando di Lord Ardwich, al quale
La Marmora era ricorso per propiziare un cessate il fuoco. Ben due imbarcazioni
spedite a terra dalla nave vennero respinte a colpi di fucile. La terza, armata,
riuscì a ricacciare i pochi arditi rimasti sul molo, catturare e smontare quattro
pezzi di artiglieria, gettare in acqua un gran numero di palle e portar via, per
consegnarli ai piemontesi, 26 cassoni di polvere.
I consoli si erano presentati a La Marmora, in compagnia dell'Avezzana, il
quale chiedeva un armistizio e si vide offrire appena 4 ore di tregua. «Se non
cederete Genova ai piemontesi, la cederete agli austriaci», lo minacciò il
console di Sua Maestà britannica. Avezzana inviò a Lord Ardwick una nota nella
quale lo minacciava di colare a picco a cannonate la "Vengeance", se non avesse
abbandonato la posizione all'ormeggio dalla quale avrebbe potuto volgere i
cannoni contro la popolazione. La nave venne spostata ma il Commodoro continuò
a trescare a favore dei piemontesi.
Gli eventi precipitavano. A mezzogiorno del 5 le batterie dei piemontesi
cominciarono a battere la città. Il bombardamento durò trentasei ore, provocando
incendi, crolli, devastazioni sui quartieri poveri e una moltitudine di vittime
e feriti. Particolarmente bersagliato il quartiere di Portoria. In spregio a
Balilla? Venne colpito più volte l'Ospedale di Pammatone, undici proiettili
esplosero nelle corsie, facendo strage dei degenti e costringendo i superstiti
a fuggire seminudi e sanguinanti. Le dimore signorili di via Nuova e via
Nuovissima (le attuali via Garibaldi e via Balbi) furono completamente risparmiate.
Centrate dai proiettili, colarono a picco alcune delle navi ormeggiate in porto,
tra loro il "Liamone", battello-posta francese. La Marmora fu costretto a
scusarsene. Gli orrori dell'ignobile bombardamento sui civili vennero superati
quando entrarono in azione le soldataglie. Lasciamo la parola all'Anonimo:
«In ben 350 famiglie di San Rocco degli Angioli, S. Teodoro e di S. Lazzaro,
come risulta dai documenti raccolti dal Municipio, infuriò la bestialità delle
forsennate milizie, che sfondavano gli usci delle pacifiche case, e tutto
mandavano a ruba. Oltre agli averi dei cittadini si diè piglio ai vasi sacri,
e agli arredi dei templi, si stuprarono le vergini, le madri insultavansi; nel
palazzo del principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de' nostri prigioni
gallette inzuppate di sangue. Diversi ufficiali, quelli in ispecie dei bersaglieri,
furono i primi a bottinare (alcuni di essi già scontano in carcere le loro
scelleratezze) animando coll'esempio i soldati». Fra i tanti scellerati
che disonorarono la divisa il bersagliere Alessio Pasini, mantovano, si
distinse per aver sottratto intere famiglie alla brutalità dei commilitoni.
Verrà premiato dal Municipio di Genova con una daga d'onore.
In Valbisagno il giorno 6 le compagnie nazionali delle borgate di Marassi,
Quezzi e San Fruttuoso abbandonarono il Forte dei Ratti. Preso il Forte dei
Ratti, i piemontesi si accamparono a Bavari e occuparono anche il forte di
Santa Tecla, abbandonato dai difensori. Il Richelieu, difeso da appena 16
uomini, si diede al nemico che tributò ai difensori l'onore delle armi. Mentre
il comandante del forte di San Giuliano, portatosi a parlamentare a Sturla
con Alessandro La Marmora, si condusse appresso 200 piemontesi ai quali
consegnò la fortezza.
I promotori della rivolta il giorno 7 lasciarono la città, che aveva ottenuto
un armistizio. Solo Reta andò a parlamentare col corpo consolare a
bordo della nave francese "Tonnerre", da dove gli venne impedito di sbarcare.
Il Municipio pensava alla resa e se ne accorse l'Avezzana che avrebbe voluto
proseguire la lotta fidando nell'arrivo dei Lombardi. A cercare loro notizie
spedì Aureliano Borzino, sul piccolo legno il "Rimorchiatore". Il mare
in pessime condizioni lo costrinse a riparare, malconcio, nell'insenatura di
Portofino. I Lombardi, al comando del generale Fanti, tra il 26 e il 27
marzo avevano lasciato Alessandria. La divisione era forte di 4 reggimenti di
fanteria, due battaglioni di bersaglieri, 28 pezzi di artiglieria, 700 cavalli,
un corpo del Genio, più le salmerie e l'intendenza. In tutto, novemila uomini.
Un'avanguardia aveva preceduto il grosso della divisione sulla via di Genova
e il 29, lasciata Tortona, era giunta a Serravalle. Fanti, in movimento da
Alessandria a Tortona, si era imbattuto in altri drappelli di soldati decisi
a battersi in difesa di Genova. Decise quindi di diramare ordini alle truppe
giunte a Serravalle e le convinse a non procedere oltre fino a che non avesse
fatto ritorno una deputazione spedita a Torino. Lo stratagemma diede mano libera
a La Marmora per schiacciare Genova. La deputazione inviata a Torino, della
quale faceva parte anche Luciano Manara, comandante dei bersaglieri
(che cadrà nella difesa della Repubblica Romana), presentatasi al ministro
della guerra e al generale Czarnowski, Capo di Stato maggiore, ottenne
di ripartire per Genova ma attraverso la via di Bobbio. La marcia si tramutò
in un'anabasi su un percorso privo di strade, coperto di neve, afflitto da
rocce e strapiombi che costrinsero a gettar via l'equipaggiamento pesante,
cannoni e munizioni. Le truppe giunsero lacere e spossate, fra il 7 e il 10
aprile, a Chiavari, dove le attendevano il "Giglio" e altri battelli spediti
dal governo provvisorio per condurli a Genova. Fanti si oppose, affermando
che mai avrebbe levato le armi contro il Piemonte. Genova era spacciata.
Dopo l'armistizio del giorno 6, un secondo armistizio venne proclamato per
permettere a tre inviati - i civici consiglieri Orso Serra, Caveri
e Cataldi - di raggiungere Torino e ottenere l'amnistia, che venne
concessa, con l'esclusione dei Triumviri e di altri nove personaggi troppo
compromessi con la sollevazione. Avezzana fu fra gli ultimi a lasciare la città,
inseguito dalla accusa - calunniosa - di aver ordinato la liberazione dei
condannati del bagno penale. Andò a Roma, a difesa della Repubblica.
Il 9 aprile le truppe piemontesi fecero il loro ingresso in città, in testa
gli efferati bersaglieri a passo di carica, quindi gli squadroni di cavalleria,
a chiudere i fanti. Ad accoglierle trovarono usci sprangati, persiane serrate,
strade deserte. Genova in lutto piangeva i suoi morti e le libertà perdute.
La Marmora - in un dispaccio dell'8 aprile - denunciava la perdita di circa
duecento soldati, ma vi è il sospetto che fossero anche più del doppio.
Difficile conteggiare le vittime civili fra la popolazione. Una cifra realistica,
in base agli atti di morte rinvenuti in diverse parrocchie, li avvicina alla
cifra di duecento. La Guardia nazionale venne sciolta, i cittadini disarmati,
le libertà civili e politiche concultate, abolita la libertà di stampa, proibita
la libertà di associazione. Gli arresti, provocati da delazioni non sempre
disinteressate, si moltiplicarono. Tornarono i gesuiti, cacciati a furor di
popolo. Dovevano trascorre undici anni prima che il tricolore dell'Italia Unita
sventolasse sulla città, "colpevole" di amare la libertà dei suoi cittadini,
l'unità e l'indipendenza della Patria.
(2 - Fine)
Leggi la prima parte
RENZO PARODI
La cripta dei Cappuccini
di "Padre Santo" dove sono sepolti i resti dei caduti del 1849
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