Il sacco di Genova
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Il Secolo XIX Domenica 18 gennaio 2004

[ «Alessandro De Stefanis studente sulle barricate ]
 

Nell'aprile del 1849 la città, insorta dopo l'armistizio di Vignale con gli austriaci, venne presa d'assalto dall'esercito piemontese

Il sacco di Genova

L'orda dei bersaglieri di La Marmora

A mezzogiorno del 5 aprile '49 le batterie dei piemontesi cominciarono a sparare sulla città. Il bombardamento durò 36 ore provocando incendi, crolli, devastazioni sui quartieri più poveri e una moltitudine di vittime e feriti. Poi entrarono in azione i bersaglieri e furono saccheggi, stupri e violenze di ogni genere contro gli insorti.

Vittorio Emanuele II lodò La Marmora per la presa della città
Avevamo lasciato La Marmora accampato in Valpocevera con i suoi trentamila soldati armati. Genova si era sollevata contro il governo di Torino per protesta contro l'infausta conclusione della guerra contro l'Austria, siglata dall'umiliante pace firmata dal nuovo re, Vittorio Emanuele II, a Vignale. Fiaccato dalla disfatta di Novara, che era costata il trono a Carlo Alberto, il Piemonte aveva accettato condizioni umilianti pur di porre fine alle ostilità. Fra l'altro si permetteva a un presidio austriaco di ventimila uomini di stazionare sul territorio piemontese. Genova, città repubblicana di forti sentimenti antitedeschi, ci vide l'annuncio di una prossima invasione. La gente ricordava ancora l'occupazione austriaca di un secolo prima, il sasso scagliato da Balilla. Sapevano, i genovesi, che la libertà conquistata va difesa, anche con le armi. Si armarono e scesero in strada, costrinsero sulla difensiva il comandante della Divisione militare, De Asarta, che già aveva chiesto aiuto a Torino. Una folla di migliaia di popolani, giovani, donne, persino preti e frati, conquistò i punti strategici: la Darsena, alcune fortificazioni che sorgevano sulle colline circostanti. Affiancati dalla Guardia Nazionale, la gente si preparava ad affrontare gli austriaci. Si trovò di fronte i "fratelli" piemontesi in divisa, i soldati del generale Alfonso Lamarmora. Piegata la resistenza dei difensori dei forti, l'alto ufficiale ordinò il bombardamento della città. Altri morti, altre rovine, altro odio. Ubriachi di rancore, guidati da un ufficiale che detestava i genovesi, i bersaglieri entrarono a Genova abbandonandosi ad ogni tipo di nefandezze. Venne scritta una delle più tetre e squallide pagine della storia risorgimentale. "Il Secolo XIX" la ripercorre con voi.

R. Par.

Accampato con trentamila uomini in Valpolcevera, La Marmora si preparava a dare l'assalto alla città. Secondo l'Anonimo di Marsiglia (testimone oculare dell'insurrezione) il comandante piemontese aveva promesso ai suoi soldati libertà di saccheggio. In un libello apologetico ed autocelebrativo, pudicamente intitolato: "Un episodio del Risorgimento", La Marmora esibisce questa barcollante autodifesa: se non fosse giunto, alla testa delle truppe, a "liberare" Genova dai sediziosi che l'avevano presa in pugno, si sarebbe rischiato «di vedere gli Austriaci e i Francesi fare a gara per aiutarci e giungere forse anche contemporaneamente, gli uni per terra, gli altri per mare, sotto le mura di Genova». La Marmora aveva quindi "salvato" la città riempiendone la strade di morti e le case di soldati votati al saccheggio e alle violenze sui cittadini inermi. Di gratuite violenze si macchiarono anche i genovesi. Il 3 aprile una folla inferocita riconobbe (sebbene in abiti borghesi), il maggiore dei Carabinieri Ceppi, lo linciò e fece scempio del cadavere.

«Alle due del pomeriggio (4 aprile), il battere della generale e i rintocchi delle campane chiamavano il popolo all'armi. - scrive l'Anonimo - Correa voce che i bersaglieri si fossero per sorpresa impodestati del forte di S. Benigno. Ma questa voce, lungi dall'abbattere l'animo dei popolani, era loro anzi di sprone a riacquistarlo». Un falso ordine di Avezzana - propagato in realtà dai piemontesi - fece accorrere diecimila armati a difesa della Porta Pila, lungo il Bisagno, con la scusa che l'assalto a San Benigno era una manovra diversiva. Il vero sforzo dei regi viceversa si stava producendo proprio a ponente, provenendo da Sampierdarena. Fra gli insorti circolava un gran numero di spie e provocatori al soldo dei piemontesi. Un tale R. si offerse ad Avezzana di guidare la difesa del forte delle Tenaglie. Il comandante purtroppo accondiscese e il traditore, il giorno 3 aprile, prese possesso del forte, rifiutando, il giorno appresso, l'aiuto portato dalla Compagnia N.N., con la scusa che i suoi 138 uomini sarebbero bastati alla difesa. Quindi si procurò, con l'inganno, l'ordine firmato dal colonnello Federico Campanella, dello Stato Maggiore, di spalancare le porte del forte ad una fantomatica Compagnia se questa fosse stata respinta dai piemontesi. Senonché, al posto dei soldati amici, furono i bersaglieri ad irrompere nel forte delle Tenaglie.

Frattanto La Marmora aveva inviato un messo ai genovesi con l'intimazione alla resa. La risposta fu un grido solo: Genova «si sarebbe sepolta fra le sue rovine anziché cedere così vilmente». Le difese presero posizione alla batteria di San Teodoro paventando un attacco alle spalle condotto dal forte delle Tenaglie attraverso la porta degli Angioli. Le batterie della Darsena, del Molo, della Cava, di Monte Galletto aprirono un fuoco tremendo in direzione di San Benigno, dove si erano attestati i soldati regi, facendone strage. Dal mare la barca cannoniera la "Valorosa" sparava sulla costa da Sampierdarena. Le mura di Granarolo si riempivano di volontari pronti a combattere, rinforzati dalla Legione Universitaria. Con due pezzi da sedici pollici si sparava anche contro un'uccelliera al Lagaccio, costringendo a sgomberare un manipolo di bersaglieri. Nella notte Lorenzo Pareto ordinò di ritirarsi sul Forte Begato.

Alla porta della Lanterna, ordini e contrordini (spesso fasulli) si incrociavano gettando nello scoramento i difensori (110 artiglieri e 100 fra Guardie nazionali e popolani). Alle 4, di fronte all'attacco dei regi, fuggirono via mare. Il Conte N.N., avvicinatosi con la bandiera bianca alle mura per parlamentare a nome di La Marmora, venne respinto. Un ufficiale e alcuni bersaglieri che avanzavano con un vessillo bianco furono centrati e disintegrati da un colpo di cannone sparato dal Molo Vecchio. Si presentò La Marmora in persona che si accorse come le difese fossero sguarnite. Ordinò l'assalto e gli otto (!) difensori dovettero trovare scampo via mare. Insediatisi alla Lanterna, i soldati regi volsero contro la città le batterie che vi avevano trovato intatte e neppure il coraggioso tentativo di 50 polacchi (dei 160 accorsi a battersi a Genova) valse a sloggiarli. Nei successivi attacchi si distinsero per crudeltà i bersaglieri comandati da Alessandro La Marmora, fratello maggiore del comandante in capo.

Caduta anche la porta di Granarolo, i regi rintuzzarono un attacco proveniente dal Begato, nel quale si distinse il barcaiolo Nicola Ghio, detto Guerra. Le truppe regie strinsero d'assedio le pendici del Begato, i genovesi alle otto del 5 aprile dovettero sgomberare il palazzo e la piazza del Principe, presa d'assalto da diversi battaglioni nemici. Si rinserrarono dietro le barricate erette a Porta San Tomaso, dalla quale si sparava ad alzo zero contro la cavalleria che invano si slanciava all'attacco. Si riconquistò alla baionetta il palazzo del Principe. L'Anonimo cita ammirato una bella cortigiana, I.B. «le cui mollezze riscattava ampiamente generoso sentire e forte amor cittadino. Fremente d'ardor bellicoso lanciavasi prima in quel vasto palagio a rintracciare il nemico e del suo più che maschio ardire meravigliò lo stesso Avezzana». Il palazzo Doria venne tre ore dopo riperso e subito bombardato dall'alto dagli insorti, appostati alla barricata di San Tomaso, da Monte Galletto e dalla Specula.

Altri personaggi si distinsero in quelle giornate di sangue. Uno è Gio Batta Chiappara, detto il Moscettiere, console dei facchini del Ponte della Legna. Già avanti negli anni, posto a guardia del magazzino delle polveri sopra il Lagaccio, sorpreso dai bersaglieri, si offerse loro come ostaggio e riuscì a scampare. Frattanto si stipulava un fragile armistizio fra un gruppo di insorti e i soldati di La Marmora. Nella lotta era entrata anche una nave britannica, la "Vengeance", ormeggiata al porto, al comando di Lord Ardwich, al quale La Marmora era ricorso per propiziare un cessate il fuoco. Ben due imbarcazioni spedite a terra dalla nave vennero respinte a colpi di fucile. La terza, armata, riuscì a ricacciare i pochi arditi rimasti sul molo, catturare e smontare quattro pezzi di artiglieria, gettare in acqua un gran numero di palle e portar via, per consegnarli ai piemontesi, 26 cassoni di polvere.

I consoli si erano presentati a La Marmora, in compagnia dell'Avezzana, il quale chiedeva un armistizio e si vide offrire appena 4 ore di tregua. «Se non cederete Genova ai piemontesi, la cederete agli austriaci», lo minacciò il console di Sua Maestà britannica. Avezzana inviò a Lord Ardwick una nota nella quale lo minacciava di colare a picco a cannonate la "Vengeance", se non avesse abbandonato la posizione all'ormeggio dalla quale avrebbe potuto volgere i cannoni contro la popolazione. La nave venne spostata ma il Commodoro continuò a trescare a favore dei piemontesi.

Gli eventi precipitavano. A mezzogiorno del 5 le batterie dei piemontesi cominciarono a battere la città. Il bombardamento durò trentasei ore, provocando incendi, crolli, devastazioni sui quartieri poveri e una moltitudine di vittime e feriti. Particolarmente bersagliato il quartiere di Portoria. In spregio a Balilla? Venne colpito più volte l'Ospedale di Pammatone, undici proiettili esplosero nelle corsie, facendo strage dei degenti e costringendo i superstiti a fuggire seminudi e sanguinanti. Le dimore signorili di via Nuova e via Nuovissima (le attuali via Garibaldi e via Balbi) furono completamente risparmiate. Centrate dai proiettili, colarono a picco alcune delle navi ormeggiate in porto, tra loro il "Liamone", battello-posta francese. La Marmora fu costretto a scusarsene. Gli orrori dell'ignobile bombardamento sui civili vennero superati quando entrarono in azione le soldataglie. Lasciamo la parola all'Anonimo: «In ben 350 famiglie di San Rocco degli Angioli, S. Teodoro e di S. Lazzaro, come risulta dai documenti raccolti dal Municipio, infuriò la bestialità delle forsennate milizie, che sfondavano gli usci delle pacifiche case, e tutto mandavano a ruba. Oltre agli averi dei cittadini si diè piglio ai vasi sacri, e agli arredi dei templi, si stuprarono le vergini, le madri insultavansi; nel palazzo del principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de' nostri prigioni gallette inzuppate di sangue. Diversi ufficiali, quelli in ispecie dei bersaglieri, furono i primi a bottinare (alcuni di essi già scontano in carcere le loro scelleratezze) animando coll'esempio i soldati». Fra i tanti scellerati che disonorarono la divisa il bersagliere Alessio Pasini, mantovano, si distinse per aver sottratto intere famiglie alla brutalità dei commilitoni. Verrà premiato dal Municipio di Genova con una daga d'onore.

In Valbisagno il giorno 6 le compagnie nazionali delle borgate di Marassi, Quezzi e San Fruttuoso abbandonarono il Forte dei Ratti. Preso il Forte dei Ratti, i piemontesi si accamparono a Bavari e occuparono anche il forte di Santa Tecla, abbandonato dai difensori. Il Richelieu, difeso da appena 16 uomini, si diede al nemico che tributò ai difensori l'onore delle armi. Mentre il comandante del forte di San Giuliano, portatosi a parlamentare a Sturla con Alessandro La Marmora, si condusse appresso 200 piemontesi ai quali consegnò la fortezza.

I promotori della rivolta il giorno 7 lasciarono la città, che aveva ottenuto un armistizio. Solo Reta andò a parlamentare col corpo consolare a bordo della nave francese "Tonnerre", da dove gli venne impedito di sbarcare. Il Municipio pensava alla resa e se ne accorse l'Avezzana che avrebbe voluto proseguire la lotta fidando nell'arrivo dei Lombardi. A cercare loro notizie spedì Aureliano Borzino, sul piccolo legno il "Rimorchiatore". Il mare in pessime condizioni lo costrinse a riparare, malconcio, nell'insenatura di Portofino. I Lombardi, al comando del generale Fanti, tra il 26 e il 27 marzo avevano lasciato Alessandria. La divisione era forte di 4 reggimenti di fanteria, due battaglioni di bersaglieri, 28 pezzi di artiglieria, 700 cavalli, un corpo del Genio, più le salmerie e l'intendenza. In tutto, novemila uomini. Un'avanguardia aveva preceduto il grosso della divisione sulla via di Genova e il 29, lasciata Tortona, era giunta a Serravalle. Fanti, in movimento da Alessandria a Tortona, si era imbattuto in altri drappelli di soldati decisi a battersi in difesa di Genova. Decise quindi di diramare ordini alle truppe giunte a Serravalle e le convinse a non procedere oltre fino a che non avesse fatto ritorno una deputazione spedita a Torino. Lo stratagemma diede mano libera a La Marmora per schiacciare Genova. La deputazione inviata a Torino, della quale faceva parte anche Luciano Manara, comandante dei bersaglieri (che cadrà nella difesa della Repubblica Romana), presentatasi al ministro della guerra e al generale Czarnowski, Capo di Stato maggiore, ottenne di ripartire per Genova ma attraverso la via di Bobbio. La marcia si tramutò in un'anabasi su un percorso privo di strade, coperto di neve, afflitto da rocce e strapiombi che costrinsero a gettar via l'equipaggiamento pesante, cannoni e munizioni. Le truppe giunsero lacere e spossate, fra il 7 e il 10 aprile, a Chiavari, dove le attendevano il "Giglio" e altri battelli spediti dal governo provvisorio per condurli a Genova. Fanti si oppose, affermando che mai avrebbe levato le armi contro il Piemonte. Genova era spacciata.

Dopo l'armistizio del giorno 6, un secondo armistizio venne proclamato per permettere a tre inviati - i civici consiglieri Orso Serra, Caveri e Cataldi - di raggiungere Torino e ottenere l'amnistia, che venne concessa, con l'esclusione dei Triumviri e di altri nove personaggi troppo compromessi con la sollevazione. Avezzana fu fra gli ultimi a lasciare la città, inseguito dalla accusa - calunniosa - di aver ordinato la liberazione dei condannati del bagno penale. Andò a Roma, a difesa della Repubblica.

Il 9 aprile le truppe piemontesi fecero il loro ingresso in città, in testa gli efferati bersaglieri a passo di carica, quindi gli squadroni di cavalleria, a chiudere i fanti. Ad accoglierle trovarono usci sprangati, persiane serrate, strade deserte. Genova in lutto piangeva i suoi morti e le libertà perdute. La Marmora - in un dispaccio dell'8 aprile - denunciava la perdita di circa duecento soldati, ma vi è il sospetto che fossero anche più del doppio. Difficile conteggiare le vittime civili fra la popolazione. Una cifra realistica, in base agli atti di morte rinvenuti in diverse parrocchie, li avvicina alla cifra di duecento. La Guardia nazionale venne sciolta, i cittadini disarmati, le libertà civili e politiche concultate, abolita la libertà di stampa, proibita la libertà di associazione. Gli arresti, provocati da delazioni non sempre disinteressate, si moltiplicarono. Tornarono i gesuiti, cacciati a furor di popolo. Dovevano trascorre undici anni prima che il tricolore dell'Italia Unita sventolasse sulla città, "colpevole" di amare la libertà dei suoi cittadini, l'unità e l'indipendenza della Patria.

(2 - Fine)
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RENZO PARODI

La cripta dei Cappuccini di "Padre Santo" dove sono sepolti i resti dei caduti del 1849

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