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IL SECOLO XIX
Giovedì 5 giugno 2003

La cartina del diritto smarrito

FRANCESCO MUNARI*


I vertici di Sharm el-Sheik ed Aqaba schiudono timide speranze per il ripristino di un percorso pacifico verso una soluzione alla situazione mediorientale. I presupposti, del resto, parrebbero emergere dalle stesse dichiarazioni rese dai vari leader: è importante il chiaro e definitivo ripudio da parte di Abu Mazen della violenza e del terrorismo contro Israele quale mezzo per risolvere il problema palestinese; ed è importante la dichiarazione di Ariel Sharon il quale, nell’accettare il principio di due Stati - Israele e Palestina - che vivano in pace e sicurezza tra loro, si è dichiarato pronto a intavolare negoziati con tutti i vicini arabi nell’ottica della pacificazione dell’area, affermando anche la necessità della continuità territoriale in Cisgiordania per uno Stato palestinese vitale. Di rilievo sono pure le dichiarazioni di re Abdallah di Giordania, il quale, a nome dei Paesi arabi presenti a Sharm el-Sheik, ha avallato la "road map", la "carta stradale" del processo di pace, e ha voluto precisare anche che la violenza non appartiene alle tradizioni religiose e morali dei popoli arabi e costituisce un ostacolo pericoloso al raggiungimento di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Intendiamoci: la strada è lunghissima e difficile. Dieci inutili anni sono passati dagli accordi di Oslo, e non è lecito attendersi soluzioni a breve: semmai, e con cautela, si può sperare in un percorso a tappe, quale appunto è la "road map". Tuttavia, mai come in questo momento si avrebbe bisogno, a livello internazionale, di verificare qualche progresso in questo percorso: è un fatto che, con la guerra in Iraq, la legalità internazionale sia stata scossa nelle proprie fondamenta, e che, comunque la si voglia mettere, è assai difficile ed è ancor più pericoloso) cercare di trovare giustificazioni all’operazione shock and awe, quanto meno sul piano del diritto internazionale. È quindi importante che si scorgano segnali della volontà di più Stati di ricorrere a meccanismi coerenti con la legalità per risolvere delicate questioni internazionali e far cessare condotte incompatibili coi principi di convivenza pacifica. Certo, la "road map" non è il meglio che ci si potesse attendere. Ma di questi tempi è già molto verificare la messa in moto di un processo, il cui esito finale, quanto meno nelle sue linee guida, tende a confermare, da un lato, che resta in vigore il diritto di autodeterminazione dei popoli e che le conquiste territoriali compiute violentemente non sono definitive; dall’altro lato, che gli Stati hanno il diritto di garantire la sicurezza del proprio territorio e dei propri cittadini e che il terrorismo va condannato unanimemente anche quando cerca di ammantarsi come lotta di liberazione. Forse proprio per cercare un consenso" più ampio a livello internazionale, è probabile che gli Stati Uniti cercheranno questa volta di far decollare il processo di pace. Nello stesso senso il mondo arabo potrebbe cogliere finalmente l’occasione di ritrovare quell’unità e compattezza la cui costante mancanza, in passato, è certamente causa dei molti mali che lo affliggono. Se queste premesse si verificano, c’è da augurarsi davvero che, dopo il nadir del conflitto iracheno, la legalità internazionale possa riprendere il proprio faticoso cammino. Per inciso, meglio che l’Onu ne stia al momento fuori, non foss’altro per la confusione che, intorno al suo ruolo, si è riscontrata negli ultimi anni, e specialmente negli ultimi mesi. Teniamoci quindi cara questa "road map", perché essa, nonostante tutto, costituisce una pur labile riprova del fatto che il diritto internazionale, se non gode oggi di buona salute, fortunatamente non è ancora, per usare le parole del mio collega Paolo Picone, un colorito Far West nel quale tutti possono andare liberamente a caccia degli indiani.

*docente di Diritto internazionale
all’Università di Genova

 

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