il Giornale
Domenica 6 aprile 2008
LE INCHIESTE DEL GIORNALE
Il banchetto della politica
Gianni Pennacchi
Quali spese dovrà mai sostenere il partito «Insieme per Bresso» per giustificare un
finanziamento pubblico di circa 110mila euro ogni anno? E l’«Unione sudamericana emigrati
italiani» con 9mila, la lista «Associazioni italiane in Sudamerica» per 63mila euro,
«l’Aquilone del presidente» quasi 300mila, la «Civica Piero Marrazzo» che incasserà oltre
300mila euro almeno sino alle prossime regionali? Non hanno sedi né dipendenti, non
stampano l’ombra di un bollettino e hanno già abbondantemente coperto i costi reali
sostenuti in quei quaranta giorni di campagna elettorale a supporto dei partiti veri,
quelli nazionali, che oltretutto si facevano carico delle spese più forti. E però partecipano
anch’essi al gran banchetto del finanziamento pubblico della politica, a dimostrazione che
nonostante gli esorcismi contro il bipartitismo, le paure che il Pdl di Berlusconi e il Pd
di Veltroni finiscano col fagocitare ogni cespuglio, il nostro è ancora il Paese del
particulare e dei mille campanili. Piccolo sarà anche brutto, ma rende. Sono una
cinquantina, i partiti che non ci sono ma che consumano come se ci fossero. Tutto regolare
ovviamente, ognuno incassa la sua tranche annuale in proporzione alla forza dimostrata
nelle urne, i più in quelle delle elezioni regionali, alcuni sommandola a quella delle
europee, altri fondando il titolo nel parlamento nazionale. Ogni anno l’assegno è di
3.818.745 euro. Che va moltiplicato per tre (gli anni che mancano alla fine naturale della
legislatura da poco conclusa). Totale: 11,5 milioni di euro meno qualche spicciolo. Tutto
regolare ma illogico, frutto perverso dell’escamotage messo in piedi dai partiti nazionali
per aggirare il referendum che nel 1993 mise fine al finanziamento dello Stato ai partiti.
Provarono con le firme nelle dichiarazioni dei redditi, ricordate?, come per le opere
religiose: ma dopo due anni, poiché pochi firmavano, anzi nessuno a confronto dell’Irpef
devoluto alle religioni, insabbiarono tutto puntando sui «rimborsi elettorali». Fittizi e
nominali ovviamente, perché oggi si è arrivati a 5 euro per ogni iscritto alle liste elettorali
(indipendentemente dall’esercizio effettivo del voto) che si moltiplicano ad ogni elezione
della Camera, del Senato, delle Regioni e dell’Europarlamento. Un mare di soldi, 200 milioni
d’euro all’anno a copertura più che abbondante delle spese sostenute per le elezioni, ma
che servono principalmente a sostenere la vita quotidiana dei partiti, tra un turno elettorale
e l’altro. «Rimborsi elettorali» però, si devono chiamare. Per non evocare il «finanziamento
pubblico» vietato dal popolo sovrano. E per giustificare la finzione, occorre sopportare che
del marchingegno approfittino anche partitini nati all’inizio di una campagna elettorale e
svaniti con l’elezione di uno o più consiglieri, quando va bene un parlamentare e spesso
nemmeno quello. Gli eletti poi stanno a posto, prendono indennità, usano uffici e personale
dell’istituzione, della loro lista nessuno si ricorda più. Lista che però risorge ogni
anno all’incasso della quota di finanziamento pubblico. Chiamatela anomalia se volete,
paradosso della politica nostrana. Paradossale, del resto, è che i nostri partiti nella
Finanziaria approvata prima di Natale abbiano fatto il bel gesto di tagliarsi il 10% del
finanziamento pubblico annuale, sbandierando urbi et orbi che rinunciavano così a 20
milioni d’euro su 200 a far data dall’anno in corso. Gran successo del Pd e dell’Unione,
attenti ai problemi del Paese e in sintonia con la gente che fatica ad arrivare a fine mese,
spiegavano le fonti governative. Solo che, dopo nemmeno due mesi, grazie allo scioglimento
anticipato del Parlamento, hanno raddoppiato le tranches legate alle elezioni di Camera e
Senato sino al 2011, grazie ad una leggina approvata all’unanimità nel 2006. Sino ad allora,
era stabilito che se una legislatura s’interrompeva anzi tempo, lì finiva il rimborso in
corso e subentrava quello della nuova legislatura. Cosa normale e logica, ma i tesorieri
di partito obiettavano che lo scioglimento anticipato comportava un aggravio di spesa. La
leggina, dunque, riparava il danno garantendo - oltre al nuovo - anche il completamento del
vecchio rimborso. Il risultato è che il montepremi complessivo è sceso a 180 milioni annuali
per risalire in un batter d’occhio a 270 già quest’anno. Il risparmio insomma, s’è tramutato
in più 70 di costo. E sino al 2011, Camera e Senato fruttano il doppio. Per tutti, grandi
e piccini.
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