Come Don Chisciotte (blog)
Domenica 21 febbraio 2010
Pagina originale:
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Kirkpatrick Sale
Un limite per la grandezza degli Stati
Misurazioni per il successo della secessione
Più grande è lo stato, più
sono i disastri economici e le vittime militari, è la legge della grandezza
del governo.
Sì, Aristotele ha dichiarato che ci doveva essere un limite alla grandezza
di uno stato: “un limite, come c’è per le altre cose, piante, animali, strumenti; perché nessuno di questi conserva la propria
capacità naturale quando è troppo grande…, ma rimarrà interamente
privo della propria natura, o si troverà in cattive condizioni”,
così ha detto. Ma che diamine ne sapeva veramente? Ha vissuto in
un’epoca in cui l’intera popolazione mondiale arrivava a circa 50
milioni di persone – pressappoco la grandezza dell’Inghilterra oggi – la
popolazione delle città stato dove si parlava greco, che non erano unite
in una nazione, potrà essere stata in tutto 8 milioni, ed Atene,
dove viveva, considerata una grande città, avrebbe avuto meno di 100 000
abitanti. Limiti? Non poteva nemmeno immaginare un mondo (il nostro) con una
popolazione di 6,8 miliardi, una nazione (la Cina) con 1,3 miliardi di abitanti,
né una città (Tokyo) con 36 milioni di abitanti. In che modo ci può aiutare?
Innanzitutto sapeva che esistono dei limiti: “l’esperienza insegna
che una città molto popolosa può raramente essere ben governata; dato che tutte
le città che hanno fama di essere governate bene hanno un limite di popolazione.
E questo è provato anche da un ragionamento convincente: poiché la legge è ordine,
e la buona legge è buon ordine; ma un numero troppo smisurato non può avere ordine”.
E non conta se quella città ha 1 milione o 36 milioni di abitanti – le entità
politiche di tali dimensioni non potrebbero certamente essere democratiche in
alcun senso, non potrebbero possibilmente funzionare in alcun modo che si
avvicini all’efficienza, e potrebbero esistere solo con grandi sperequazioni di
ricchezza e benessere materiale.
In secondo luogo, sapeva che gli esseri umani hanno un
cervello di dimensioni e capacità di comprensione limitate, e che metterli in
aggregazione non li rende più intelligenti – come ha detto un altro filosofo,
Lemuel Gulliver, “la ragione non aumenta con la massa corporea”. C’è una scala
umana per la politica umana, definita dalla natura dell’uomo, che funziona
bene solamente in quelle aggregazioni che non solleciti e sovraccarichi troppo
il ... molto capace e ingegnoso ma limitato cervello umano, né la capacità
umana.
Quindi le unità politiche, diceva Aristotele – pensava principalmente a città,
non conoscendo le nazioni – ma anche se potessimo allargare tali unità con
l’esperienza di altri 2000 anni fino ad unità più grandi come le nazioni, devono
essere limitate: limitate dalla natura umana e dall’esperienza umana. Ed è con
quella massima di Aristotele che adesso possiamo iniziare a contemplare quale
dimensione di uno stato nel mondo odierno rappresenterebbe la grandezza ideale,
o diciamo la grandezza ottimale, con questi due criteri di primaria importanza:
“sufficiente”, citando Aristotele, “per una buona vita nella comunità politica”
– che sarebbe una qualche forma di democrazia – e “il massimo numero che è
sufficiente per gli scopi di una vita agiata” – che sarebbe l’efficienza.
Democrazia ed efficienza.
E sentite – questa non è una di quelle futili ricerche filosofiche. È, o
potrebbe essere, il fondamento di una seria riorganizzazione del nostro mondo
politico, e di una riorganizzazione che il processo di secessione – in effetti,
che solo il processo di secessione, per come la vedo io – potrebbe
darci. Abbiamo prove in abbondanza che uno stato di 305 milioni di abitanti è
ingovernabile – uno studioso ha detto a un quotidiano la scorsa domenica che
siamo al quarto decennio dell’inabilità del Congresso di approvare il benché
minimo provvedimento di utilità sociale. Gonfiato e corrotto oltre la sua
abilità di affrontare, né tantomeno di risolvere, nessuno dei problemi come
un impero che ha creato, è un palese fallimento. Allora dobbiamo chiederci
cosa potrebbe sostituirlo, quali [dovrebbero essere] le dimensioni? La risposta,
come sarà chiaro, sono stati indipendenti, ovvero le nazioni d’America.
Diamo innanzitutto uno sguardo ai numeri del mondo reale delle nazioni dei
nostri giorni per farci un’idea delle dimensioni della popolazione che
funzionano veramente.
Di tutte le entità politiche mondiali – ce ne sono 223, contando anche le
isole indipendenti più piccole – 45 sono al di sotto dei 250 000 abitanti,
67 sotto 1 milione, 108 sotto i 5 milioni; in effetti il 50 per cento delle
nazioni sono sotto i 5,5 milioni, ed un netto 58 per cento sono più piccole
della popolazione della Svizzera di 7,7 milioni (Wikipedia: popolazioni
mondiali in ordine di grandezza). Da questo si evince che è ovvio che la
maggior parte dei paesi nel mondo funzionano con popolazioni relativamente
piccole. E guardando alle nazioni che sono modelli riconosciuti di governo,
ce ne sono otto persino sotto i 500 000 abitanti – il Lussemburgo, Malta,
l’Islanda, le Barbados, l’Andorra, il Liechtenstein, il principato di Monaco
e la repubblica di San Marino – e l’esempio dell’Islanda, con il parlamento
più vecchio d’Europa e modello incontestato di democrazia (lasciando da
parte i suoi problemi bancari), suggerisce che 319 000 abitanti sarebbero
più che sufficienti. Salendo un po’ con le dimensioni, ci sono altri nove
modelli di buon governo sotto i 5 milioni di abitanti, compresi Singapore,
la Norvegia, la Costa Rica, l’Irlanda, la Nuova Zelanda, l’Estonia, il
Lussemburgo e Malta.
Adesso diamo uno sguardo alle dimensioni delle nazioni più prospere in
ordine di prodotto interno lordo (Wikipedia: elenco dei paesi per pil, CIA
Factbook). (Tra parentesi, lasciatemi dire che mi rendo conto che il PIL
è una misura cruda ed acritica della crescita economica, e riflette tutti
i tipi di crescita, molti non desiderabili, ma fintantoché avremo nazioni
dedite ad economie “steady state”, questo è il miglior modo per misurare
la prestazione economica). Diciotto dei 20 maggiori paesi in ordine di PIL
(un totale di 27 paesi a causa di situazioni di parità) sono piccoli, sotto
i 5 milioni di abitanti, e tutti tranne uno dei primi dieci sono sotto i
5 milioni (sono gli Stati Uniti, al decimo posto, e gli altri sono, in ordine,
il Liechtenstein, il Qatar, il Lussemburgo, le Bermuda, la Norvegia, il Kuwait,
il Jersey, Singapore e il Sultanato del Brunei); la grandezza media di questi
nove è di 1,9 milioni di abitanti. La grandezza media delle 27 nazioni più
grandi, Stati Uniti esclusi, è di 5,1 milioni di abitanti. Si inizia a capire
come stanno le cose.
Prendiamo un altro parametro – la libertà, come viene classificata da tre
diversi siti, Freedom House, il Wall Street Journal, e il The
Economist, usando misure delle libertà civili, elezioni aperte, media
liberi, e via dicendo. Dei 14 stati ritenuti i più liberi al mondo, nove (il
64 per cento) hanno una popolazione minore di quella della Svizzera di 7,7
milioni, 11 minore di quella della Svezia di 9,3 milioni, e gli unici stati
di una certa grandezza sono il Canada, il Regno Unito e la Germania, la più
grande, con 8,1 milioni di abitanti.
C’è un’altra misura della libertà pubblicata da Freedom House, che classifica
tutte le nazioni del mondo secondo i diritti politici e le libertà civili, e
ci sono solo 46 nazioni con un punteggio perfetto. Di queste 46, la maggior
parte hanno una popolazione sotto i 5 milioni, e per l’appunto 17 hanno una
popolazione persino sotto il milione. Questo in sé è sbalorditivo. E solo 14
delle 46 nazioni libere superano i 7,5 milioni. Ad esclusione degli Stati Uniti,
la cui reputazione per la libertà è del tutto smentita dall’incarcerazione di
2,3 milioni di persone, il 25 per cento dei detenuti nel mondo, ed escludendo
il Regno Unito, la Spagna e la Polonia, la popolazione media degli stati
liberi del mondo è di circa 5 milioni.
Lasciatemi infine prendere in esame altre classifiche nazionali: Alfabetizzazione:
dei 44 paesi che sostengono di avere una percentuale di alfabetizzazione pari
al 99 per cento o maggiore, (dico sostengono, dato che è difficile verificarlo),
solo 15 sono grandi, 29 (il 66 per cento) dei 44 sono sotto i 7,5 milioni.
Sanità: misurata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, 12 dei primi 20
paesi sono sotto i 7 milioni di abitanti, nessuno supera i 65 milioni. In una
classifica della felicità e del tenore di vita secondo il sociologo Steven
Hales, le nazioni in testa sono la Norvegia, l’Islanda, la Svezia, i Paesi
Bassi, l’Australia, il Lussemburgo, la Svizzera, il Canada, l’Irlanda, la
Danimarca, l’Austria e la Finlandia, tutti tranne il Canada e l’Australia
sono paesi piccoli. Ed un “indice di società sostenibile” creato da due studiosi
l’anno scorso, che tiene conto di fattori ambientali ed ecologici, classifica
solo i paesi più piccoli tra i primi 10 – in ordine sono Svezia, Svizzera,
Norvegia, Finlandia, Austria, Islanda, Vietnam, Georgia, Nuova Zelanda e
Latvia.
In sostanza – la mia idea è chiara e semplice. Una nazione può essere non
solo possibile e sostenibile a livelli di popolazione abbastanza bassi, un
modello di governo efficiente e più o meno democratico, ma può in effetti
fornire tutte le qualità necessarie ad una vita superiore. Per l’appunto,
le cifre sembrano suggerire che, seppure sia possibile prosperare a dimensioni
sotto il milione di abitanti, esiste una grandezza più o meno ottimale per
uno stato riuscito, ossia tra i 3 e i 5 milioni di abitanti.
Adesso diamo una rapida scorta alla grandezza geografica delle
nazioni prospere. Molte nazioni sono sorprendentemente piccole – sottolineando
il fatto, spesso non notato dai critici della secessione, che una nazione
non deve essere autosufficiente per funzionare bene nel mondo moderno. Infatti
ci sono 85 entità politiche, delle 223 contate dall’ONU, che sono più piccole
di 16 000 chilometri quadrati – ossia la grandezza del Vermont o anche più
piccole – e comprendono Israele, El Salvador, le Bahamas, il Qatar, il Libano,
il Lussemburgo, Singapore e l’Andorra.
E se torniamo a quella misura di forza economica che è il prodotto interno
lordo pro capite, le nazioni piccole dimostrano di essere decisamente vantaggiose:
delle prime 20 nazioni nella classifica (27 in totale incluse quelle pari
merito), tutte tranne otto sono piccole per territorio, meno di 56000 chilometri
quadrati, la media globale (grande come il South Carolina) e due di quelle
otto includono la Norvegia e la Svezia, tecnicamente grandi, ma che escluse
le loro aree settentrionali deserte, sono effettivamente piccole; in altre
parole il 77 per cento delle nazioni prospere sono piccole. E la maggior
parte di queste sono davvero piuttosto piccole, meno di 16000 chilometri
quadrati (Liechtenstein, Qatar, Lussemburgo, Bermuda, Kuwait, Jersey, Singapore,
Brunei, Guernsey, Isole Cayman, Hong Kong, San Marino, Isole Vergini Britanniche
e Gibilterra).
Tutto questo è prova certa che le nazioni economicamente coronate da successo
non devono necessariamente essere grandi in quanto a dimensioni geografiche,
e anzi, questo è il punto importante: è molto indicativo che la grandezza possa
essere in effetti un ostacolo. Il motivo di ciò è che i costi di amministrazione,
distribuzione, trasporto e di simili operazioni ovviamente devono crescere,
forse esponenzialmente, con l’aumento delle dimensioni geografiche. Anche il
controllo e la comunicazione diventano più difficili da gestire sulle lunghe
distanze, spesso fino al punto che autorità e governo centrali diventano
quasi impossibili, e mentre le linee e i segnali diventano più complessi,
l’abilità di gestire efficientemente diminuisce fortemente.
Piccolo, ammettiamolo, non è solo bello ma vuol dire anche ricchezza.
[Una volta capita questa importante idea, ne può derivare un ulteriore
argomento logico: che in molti casi una nazione piccola potrebbe desiderare di
suddividersi ulteriormente per sfruttare il vantaggio di aree più piccole per
funzioni economiche più efficienti. Questo potrebbe comportare una secessione
vera e propria, in alcuni luoghi dove porterebbe semplicemente un buon vantaggio
economico – e in altri posti dove avrebbe anche vantaggi politici e culturali.
Ma potrebbe anche prendere la forma di una “devolution” economica e politica,
in cui si concedono autonomia e potere ad aree più piccole senza una vera e
propria secessione, un po’ secondo il modello svizzero].
In effetti, voglio proporre, considerando queste cifre ed ancor più considerando
la storia del mondo, che c’è una Legge di Grandezza del Governo, che dice:
la miseria sociale ed economica aumenta proporzionalmente alla grandezza
e al potere del governo centrale di una nazione.
Nel verificare questa legge – la legge di Sale, come mi piace chiamarla –
alla luce della storia, lasciatemi iniziare con lo studio giustificabilmente
classico della civilizzazione dell’uomo di Arnold Toynbee, la cui conclusione
primaria è che il penultimo stadio di qualunque società, che conduce direttamente
al suo finale stadio di crollo è “la sua forzata unificazione politica in uno
stato centralizzato”, e cita come esempi gli imperi romano, ottomano, bengalese
e mongolo, e lo Shogunato Tokugawa, ed infine gli imperi spagnolo, britannico,
francese e portoghese. Il consolidamento delle nazioni in imperi potenti porta,
non a periodi felici di pace e prosperità e al progresso del miglioramento
umano, ma ad un aumento delle restrizioni, alla guerra, all’autocrazia,
l’affollamento, la riduzione in miseria, le sperequazioni, la povertà e la
fame.
La ragione di tutto questo non è un mistero. Mentre il governo cresce, allarga
sia il suo potere burocratico sugli affari interni che il suo potere militare
sugli affari esteri. Si deve trovare il denaro per tale espansione, e questo
arriva o sotto forma di tassazione, che porta all’aumento dei prezzi ed infine
all’inflazione – un risultato che Micawber definirebbe miseria sociale – o
[proviene] dalla stampa di nuove banconote, che porta lo stesso a prezzi più
alti e all’inflazione – il risultato, ancora, è la miseria sociale. Si crede
inoltre che la ricchezza provenga dalla conquista e dalla colonizzazione,
dall’aumento dei saccheggi attraverso la guerra, ma si paga con l’imposizione
di un maggiore controllo da parte del governo e del reclutamento militare
in patria (“la guerra è la salute degli stati” come avrebbe detto Randolph
Bourne), con più violenza, spargimenti di sangue e miseria per il proprio
esercito e per i propri civili e per le forze di opposizione all’estero.
Risultato: miseria economica e sociale. Ho trattato approfonditamente questo
argomento nel mio libroHuman
Scale (disponibile su richiesta dalla New Catalist Books), ma
lasciatemene dare giusto una versione riassuntiva qui, concentrandoci sull’Europa.
Ci sono stati quattro maggiori periodi di grande consolidamento ed espansione
statale nell’ultimo millennio:
1. Dal 1150 al 1300 d.C., con l’instaurarsi delle dinastie reali che hanno
rimpiazzato le baronie medievali e le città stato in Inghilterra, Aquitania,
Sicilia, Aragona e Castiglia, portando come risultato un’inflazione rampante
di quasi il 400 per cento e guerre quasi ininterrotte, con l’aumento dei caduti
in battaglia da qualche centinaia a più di quasi un milione.
2. Dal 1525 al 1650, con il consolidamento del potere nazionale attraverso
eserciti permanenti, tassazione regia, banche centrali, burocrazie civili, e
religioni di stato, si è visto un tasso di inflazione di oltre il 700 per cento
in soli 125 anni ed un aumento delle guerre senza precedenti, un’intensità
bellica sette volte maggiore di quanto l’Europa avesse mai visto prima, l’aumento
delle morti in guerra fino a forse 8 milioni, forse 5 milioni di caduti solo
durante la Guerra dei Trent’anni.
3. Dal 1775 al 1815, il periodo del governo dello stato moderno in gran parte
d’Europa, comprese le forze di polizia nazionali, gli eserciti di coscritti,
il potere statale centralizzato in stile napoleonico, c’è stato un tasso
d’inflazione di oltre il 250 per cento in soli 40 anni, nel 1815 è stato il
più alto in assoluto fino a quello degli anni ’20, e i caduti di guerra hanno
raggiunto i 15 milioni (forse 5 milioni nelle guerre napoleoniche) in quel breve
periodo.
Infine, nel quarto periodo, dal 1910 al 1970, familiare a noi tutti, tutte
le nazioni europee si sono consolidate ed hanno ampliato il loro potere,
conosciuto in molti luoghi come totalitarismo (seppure conosciuto negli USA
come libertà e democrazia – pur avendo avuto tutte le componenti del totalitarismo
– potere centrale consolidato, banca nazionale, imposta sul reddito, polizia
nazionale, reclutamento, presidenza imperiale), avendo come risultato la
peggior depressione della storia e un’inflazione del 1400 per cento, e certamente
le due guerre più devastanti di tutta la storia dell’umanità, avendo contribuito
alla morte di 100 milioni di persone o più.
Conclusione inevitabile: più grande è lo stato, più sono i disastri economici
e le vittime militari. La legge della grandezza del governo.
Adesso che abbiamo stabilito la virtù dell’essere piccolo in tutto il mondo,
applichiamo questi numeri agli Stati Uniti e vediamo cosa ci dicono.
Dei 50 stati, appena più della metà (29) sono al di sotto dei 5 milioni di
abitanti. La metà della popolazione vive in 40 stati che hanno in media 3,7
milioni di abitanti; l’altra metà è nei 10 stati più grandi. Ci sono 10 stati
ed una colonia nella classe che va dai 3 ai 5 milioni di abitanti, che,
suggerirei, sarebbero candidati ideali per una secessione – Iowa, Connecticut,
Oklahoma, Oregon, Porto Rico, Kentucky, Louisiana, South Carolina, Alabama,
Colorado, e Mississippi – altri 13 stati tra 1 e 3 milioni di abitanti -
Montana, Rhode Island, Hawaii, New Hampshire, Maine, Idaho, Nebraska, West
Virginia, New Mexico, Nevada, Utah, Kansas, ed Arkansas – ed altri otto stati
sotto il milione di abitanti ma più grandi dell’Islanda, compreso l’amato
Vermont. In altre parole, 30 degli stati (insieme al Porto Rico) rientrano
in una categoria dove stati di simili dimensioni nel resto del mondo avrebbero
prodotto nazioni indipendenti riuscite. Questi sono i candidati a una secessione
di successo.
Aggiungiamoci le lezioni imparate dalle dimensioni geografiche. Abbiamo già
visto che 84 aree politiche nel mondo sono più piccole del Vermont, il penultimo
stato americano in ordine di grandezza. Ora vediamo come gli stati si rapportano
alle cifre mondiali. La dimensione media dell’area di uno stato americano è
di circa 93 000 chilometri quadrati – 25 stati sono più piccoli, 25 più grandi.
Se tutti quelli al di sotto di 93 000 fossero indipendenti, sarebbero come
altre 79 nazioni nel mondo, tra cui Grecia, Nicaragua, Islanda, Ungheria,
Portogallo, Austria, Repubblica Ceca, Irlanda, Sri Lanka, Danimarca, Svizzera,
Paesi Bassi e Taiwan. In altre parole, la grandezza non è in alcun modo di
intralcio al successo del funzionamento delle nazioni nel mondo – e, come ho
suggerito, le piccole dimensioni sembrano appunto essere una virtù.
Non devono necessariamente importare solo la popolazione o le dimensioni
geografiche – un fattore importante di coesione sociale, infrastruttura
sviluppata, identità storica e affini – ma quello certamente mi sembra il punto
più logico da cui iniziare, quando si considerano stati possibili. E dato che
l’esperienza del mondo ha dimostrato – per l’appunto, di volta in volta nella
formazione delle nazioni a partire dal XIX secolo – che le entità nella fascia
dai 3 ai 5 milioni di abitanti possono essere l’optimum per governabilità e
l’efficienza, ed alcuni nella fascia da 1 milione a 7 milioni, è così che si
deve iniziare a valutare gli stati per il loro potenziale di secessione e per
le loro possibilità di successo nazionale.
Spero che tutto questo esame aristotelico non venga considerato come un
mero esercizio accademico, anche se ci è voluto un bel po’ di esercizio, vi
assicuro, [per scriverlo]. Credo che stabilisca qualcosa alla maniera di un
impeto propellente per quegli Americani che capiscono che il loro governo
nazionale (ossimoro non intenzionale) è rotto e non può essere riparato (ce
n’erano un 70 per cento in un sondaggio nazionale non tanto tempo fa), e che
si rendono conto che l’unica maniera di ridare energia alla politica
americana e ricreare la vibrante collezione di democrazie, che si era figurata
la generazione dei fondatori nel XVIII secolo, è quella di creare stati
veramente sovrani attraverso una secessione pacifica, popolare e potente.
Lasciatemi sottolineare questa conclusione: l’unica speranza è la
secessione.
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