Carlo
Costa Grammatica genovese Tigullio Bacherontius, Rapallo 1993 |
[ç] [vocali] [consonanti]
Va precisato che includere tra le lettere dell'alfabeto la «c» con cediglia (ç) come fanno il Casaccia, il Gismondi e altri (la collocano al 4 posto, dopo la «c»: risultando così un alfabeto di 24 lettere) è del tutto contro le comuni norme grammaticali. In ogni lingua l'alfabeto è composto di sole lettere e non tiene conto dei segni diacritici. Nel nostro caso sempre di una «c» si tratta, anche se munita di un segno grafico che le fa cambiar suono (vedi infatti il francese appunto per la «ç»; lo spagnolo per la «ñ»; ecc.).
Se si adottasse suddetto criterio, per coerenza si dovrebbero includere in alfabeto anche altre lettere che, come vedremo, con segni diacritici assumono suoni del tutto diversi.
Il primo a darci ragione è proprio lo stesso Casaccia che in pratica mescola nel suo dizionario le due «c» come si trattasse di una sola lettera. La cosa non sfuggì al Gismondi, il quale, ritenendo evidentemente errato tale procedimento, nel proprio dizionario raggruppò e collocò i vocaboli in «ç» dopo quelli in «c». Ma non si accorse - sia detto per inciso - di incorrere talvolta nello stesso presunto errore riguardo alla «ç» in corso di parola.
Per leggere e scrivere il genovese si tengano presenti queste norme
N.B. I segni diacritici (circonflesso, puntino, dieresi) van segnati, e non mutano in qualsiasi posizione si trovi la vocale.
L’accento, obbligatorio in fine di parola, può esser segnato su «a, e, i, u» in qualsiasi posizione si trovino (saià, càmixe, è, genià, lûnedì, ammià, Gesù, bùgge); «ø», «û», «eu» si possono accentare solo in fine di parola mediante apostrofo, o apice (bleu’, perø’, zû’). Le vocali lunghe â, ê, î ö, ü ae non ricevono mai accento.
Come rendere la «u» orale: con «u» o con «o»? In linea di massima con «o» quando corrisponda ad una «o» italiana, ma non sempre: occorre consultare il dizionario (carrossê, carubba, rollo, runfo).
Sul Bollettino de A Compagna n. 3 del Maggio - Giugno 2000, Carlo Costa osserva che il computer non dispone della «o con un puntino sopra»; propone allora di utilizzare l’accento grave per la «o» aperta (ò) e l’accento acuto per la «o» chiusa (ó). Scrive quindi:
Ci si può giovare della seguente regola. La «o» chiusa non va mai segnata tranne nel caso in cui è tonica. La «o» aperta va sempre segnata, anche quando non è tonica. In tal caso l’accento non è tonico ma fonico, cioè dà un suono diverso alla vocale.
Avremo allora, per la «o» aperta, bambòccia, dònna, imbalsamòu, òrgano, òsso, paisanòtto, pròu, dove la o è tonica, ma anche ammòrtizzasion, còccarda, òbbedî, sòlitaio, vòrriae, ecc., dove la o non è tonica.
La «o» chiusa va segnata soltanto quando è tonica, come in ampólla, cóntime, incóntro, mónega, rómbo, non va segnata invece quando non è tonica, come in bocconâ, bolacco, localitae, strosciâ, Cotirde, san Comban.
Si leggono come in italiano; inoltre:
N.B. Per «s» e «z» non si badi alla corrispondenza con l’italiano: «s» rappresenta il suono aspro di entrambe le lettere; «z» il suono dolce (presiozo, malisiozo). La «s» potrà essere doppia, qualora la pronuncia lo esiga, anche col trigramma «sci» (cariscimo).
Si usi il trattino (-) per distinguere «s-c», «sc-c» (s-cetto, sc-cetto) tra di loro e dal digramma (scèna, sciollo), nonché la «n» nasale staccata (lûnn-a, pinn-a).
Per scrivere in genovese, oltre a queste indispensabili tassative regole di fonologia, servono talune norme morfologiche, sulle parti variabili. Servirebbe, forse più di tutto, un buon dizionario moderno, aggiornato nel lessico e nella grafia.