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Alfredo Gismondi
Rilievi sulla ortografia e la
pronuncia del dialetto
genovese e qualche sua
peculiarità grammaticale

"A Compagna", Genova 1974
Prima edizione: Genova, Terrile e Olcese, 1949
Seconda edizione: Savona, editrice Liguria, 1958

[Prefazione di De Martini] [Introduzione del 1958]
[Ortografia e pronunzia]: [vocali] [consonanti]
[Particolarità grammaticali]: [il nome o sostantivo] [l'articolo] [gli aggettivi] [i pronomi] [i verbi] [le preposizioni] [gli avverbi] [le congiunzioni] [interiezioni] [accento tonico nei verbi]


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Prefazione di Luigi De Martini

« Cai Zeneixi »,

ma soprattutto cari giovani genovesi, è per Voi che «A Compagna» ha deciso la ristampa di queste Note di ortografia e di pronuncia genovese del nostro indimenticabile Alfredo Gismondi.

Caro Gismondi, me lo ricordo, io ragazzino, quando veniva a curarmi, da buon amico e medico quale era, con quel suo fare così tipicamente nostrano, e ricordo che dopo avermi rimesso in sesto cominciava a discutere con mio Padre in genovese di cose e fatti genovesi. Qualcosa di allora forse ancora mi è rimasto: la voglia di saperne sempre di più di questa nostra lingua.

Perché abbiamo scelto il Gismondi? Perché Egli, oltre ad essere un profondo cultore della nostra parlata, ne aveva già fatto un sistematico studio ed una certa sintesi. Per il momento quindi, ed in attesa che «A Compagna», attraverso l'Accademia Ligustica do Brenno, che ne è una sua emanazione codifichi, con la collaborazione di tutti (dai linguisti agli studiosi ed ai cultori) la nostra lingua e prepari un nuovo dizionario ed una nuova grammatica, eccovi questo libretto che certamente sarà utile a tutti quanti vogliano sapere qualcosa di più, specialmente sull'ortografia. E perdonatemi se scrivo in italiano, ma questo è un discorso per quei genovesi che appunto san più di italiano che di genovese e desiderano, attraverso il loro italiano, imparare a meglio conoscere la loro madre lingua genovese.

Luigi De Martini
(Console Generale alla Presidenza de A Compagna, ndr)

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Introduzione dell'Autore all'edizione del 1958

Non raramente mi arrivano per le mani foglietti a stampa, avvisi, inviti anche a scopo benefico redatti in una forma che vorrebbe essere genovese, ma che rivela una mancanza di cognizioni ortografiche tale da far dare dei sobbalzi (noi diciamo piggiâ di resäti) come a vedere uno che si arroga di scrivere in una lingua straniera che non conosce affatto.

 

E non solo foglietti a stampa, ma opuscoli e libretti dal lodevole contenuto, massacrati ortograficamente così da segnare una vera anarchia del nostro genovese. V'è una ragione storica alla base di questa confusione, ed è questa. Gli editori e stampatori nostri non si fecero per l'addietro troppo diligenti per provvedersi dei pochi caratteri indispensabili per stampare correttamente le cose genovesi. Non solo, ma per ovviare in qualche modo a tale deficienza, cercarono di aggiustarsi alla meglio sostituendo arbitrariamente caratteri e segni ortografici. Ciò fu causa del disordine che si perpetua di generazione in generazione, e che molti, non a torto, lamentano.

Qualche lodevole eccezione merita di essere segnalata. Anzitutto la S.E.I. in unione ai fratelli Pagano. Il caro amico Giuseppe Peschiera quando si trattò della pubblicazione del mio Vocabolario genovese-italiano compì anche viaggi per procurarsi i caratteri necessari, quei caratteri che rendono tanto nitida e simpatica la ricerca d'una parola o d'una locuzione. Altri da segnalare sono Valentino Gavi, il benemerito direttore della rivista «Genova» ed ultimamente Silvio Sabatelli direttore di «Liguria».

Nomi che debbo additare al pubblico plauso.

Ma ciò malgrado l'arbitrio continua. Fa vero dolore vedere il pubblico di genovesi che continua a mandare in giro stampe che farebbero disonore al più foresto dei foresti.

Preoccupato, per non dire addolorato di questo stato di cose, ho voluto ancora una volta stendere un compendio delle elementari norme di pronuncia ed ortografia del nostro rude ma duttile dialetto, che Malinverni elevò alla dignità di poesia universale. Ricordino i pochi genovesi in mezzo all'invadente marea di immigrati che il dialetto nostro è ancora la migliore forma di assimilazione degli alienigeni.

Alfredo Gismondi

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ORTOGRAFIA E PRONUNZIA

Per cominciare conviene rinfrescare le cognizioni del nostro alfabeto.

Esso consta delle seguenti 24 lettere:

ABCÇDEFGHIJLMNOPQRSTUVXZ

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Le vocali sono le 5 dell'italiano, a e i o u.

A queste bisogna aggiungere altri tre suoni:

  1. il suono d'una e larga aperta, che si esprime graficamente con æ; Poæ, fræ, stæ, ægua, færo, ecc.)
  2. il suono della u lombarda o francese, espresso nella grafia con û: mû, zû, sciû, eppû.
  3. il suono della ö tedesca o del dittongo eu francese, che subì nei secoli varie modificazioni: dal giusto ed originario oe all'oeu del secolo scorso, a êu che è l'ultima oramai passata nella consuetudine da noi ora per questo adottata; così nelle parole bêu, fêugo, trêuggio.

Quando una vocale deve pronunciarsi allungata è invalso l'uso di farla sormontare dal segno della dieresi, come nelle parole äze, ëse, ïsa, cösa, müro ecc.

Fa eccezione la vocale o che in certe parole, sormontata dal segno della dieresi si pronuncia stretta, chiusa, come una u prolungata: anche per distinguer la parola da altra di uguale pronuncia, ma di diverso significato:

così lö, loro; cö, col; sciö, signor; in sciö, sul; da lõ, lupo; cõ, colore; sciõ, fiore; in sciõ, in fiore.

In ogni altro caso la ö si pronuncia come una o prolungata, come nelle parole öna, ontano, imböso, di malumore, ripöso, riposo.

 

Uno scoglio che si para subito a chi prende contatto con l'ortografia e pronuncia genovese, è la doppia pronuncia che ha la o: aperta e larga nelle parole corba, porta, posta, e chiusa e strettissima quale u nell'articolo o e nelle parole bricco, libbro, bosticcâ.

Eppure v'è una legge fonetica fondamentale, che facilita, quando la si abbia presente, la pronuncia in apparenza astrusa: la legge è questa.

La o va pronunciata aperta e larga quando vi cade l'accento tonico della parola. In ogni altro caso va pronunciata stretta e chiusa, quasi come u. Vediamo quali eccezioni vi siano a questa regola.

1) - Vi sono parole nelle quali l'accento tonico cade sulla o, che pure va pronunciata stretta e chiusa. Tali le parole monte, costo, pompa, tromba. Come si vede, in questi casi la o stretta si fa sormontare da lineetta o trattina. Quando però nei derivati, quando l'accento tonico spostato viene a cadere su altra vocale, tale segno va omesso perché in tali casi la o è già di per sé chiusa e stretta, per non portare l'accento tonico, da essa migrato.

Ammiratore di Giovanni Casaccia al quale spetta il gran merito di avere adunato, nella seconda edizione del suo Vocabolario Genovese il Corpus del nostro dialetto, mi appare strano che sia sfuggita a lui la legge ortografica di cui sopra, ciò che lo portò a vari errori, tra i quali quello di conservare la lineetta su una o che non ne aveva affatto bisogno, scrivendo trõmbettë invece del corretto trombettë e simili. Incomprensibile è per me poi la pretesa di pronunciare alla lombarda la ù e scrivere virtù anziché virtû, creando confusione, poiché in genovese abbiamo parole che terminano con ù che va pronunciato all'italiana, e sono le parole prezù e scuccuzù.

La û, come tutte le altre vocali, può essere lunga come in mû, eppû e breve come insciû, zû, virtû. Non v'è che la pratica che lo insegni. Ma la û segna anzitutto il suono della vocale, non la sua quantità.

Vi sono anche parole nelle quali la o pur non portando l'accento tonico della parola si pronuncia aperta.

Queste in generale sono:

  1. parole che incominciano con o: ottanta, ospizio, omisciõn, ostàia;
  2. parole composte: cornabûggia, portafêuggio; fa eccezione portêuvo dove 1a o è stretta, chiusa.

Qualche cosa di simile vale per la e: è aperta quando è seguita da liquida r o l seguita a sua volta da occlusiva: erba, elmo, çerto, si pronunzia aperta e larga; nei derivati però quando si sposta l'accento tonico, diventa stretta, come in erbetta, elmetto, çertessa. Così da merçe si fa ammerçâ, da perde perdiziõn.

Ciò non vale se al posto della liquida vi sia s. Così si dice festa e testa, arresto e presto: la diversa pronuncia fa cambiare spesso significato testo con e larga è il testo: con la e stretta è la tegghia: pèsta vuol dire la peste, o invece nulla affatto! con la e stretta è la terza persona indicativo singolare del verbo pestâ; da questa parola viene pesto, o pesto de baxaicò.

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Detto così brevemente delle vocali, veniamo ora alle consonanti. Diciamo subito che la x genovese ha lo stesso suono della j francese: così xatta, xoâ, bäxo.

La ç si pronuncia come una s dura: çiòula, çetrõn, çibbo, çigäa. La s ha, come nell'italiano, due suoni:

  1. uno aspro come in salamme, sessia, sigaro;
  2. un suono dolce come in reusa, casa, casetta.

Ha il suono aspro in principio di parola: sûppa, sascio, seggia, sordatto.

Ha anche suono aspro nel corpo della parola:

  1. dopo vocale prolungata: cäso, ëse, cäsetta, cösa; fa eccezione ïsoa ove si pronuncia dolce;
  2. seguita dalle consonanti c dura, f, p, q. t: scappâ, sfigûrâ, squaddra, stento, stiâ, stonâ.

Ha invece suono dolce:

  1. in mezzo a due vocali: casa, rêusa, ghisa, ûso, riso;
  2. seguita dalle consonanti b, g, d, l, m, n, r, v: come nelle parole asbrïo, desdiccia, sguâro, slavòu, asmûggiâ, snatûròu, sregûlòu, svampï.

Un suono tutto particolare del genovese è quello graficamente espresso con sc-c ossia uno sh inglese seguito da c molle, come nelle parole sc-cetto, sc-ciuppetta, masc-cio, rasc-cia, sc-ciappâ.

Anche la z ha due suoni distinti: uno aspro come in grazie, aziõn, dove in genovese suona quasi s dura; ed uno molto dolce, come in zizzoa, ziëlo, zazzûn.

È andato introducendosi di soppiatto nel nostro dialetto un abuso di sostituire cioè la z alla s dolce, e scrivere così rêuza invece di rêusa, marcheize invece di marcheise, zeneize invece di zeneise, preiza invece di preisa. Preso così l'abbrivo, Casaccia scrisse ûzo e pertûzo. Dobbiamo respingere senz'altro quest'abuso, che non ha ragione alcuna di glottologia, ma nell'ortografia genovese non ha altra spiegazione che «le pecorelle fuor dal chiuso, e quel che fa la prima, e l'altre fanno».

Ritornare indietro quando s'è presa la strada sbagliata non è disonore, ma saggezza. Scrivete dunque rêusa, preisa, peiso, ecc. Ma non scriviamo già offeisa?

Dobbiamo ancora segnalare il suono nasale della n finale: pan, fen, vin, carbõn, ancon, ûn.

Si ha anche un suono spiccatamente nasale nelle parole: lann-a, fænn-a, schenn-a, scõnn-a, lûnn-a ecc.

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PARTICOLARITÀ GRAMMATICALI

Passiamo ora a vedere le particolarità grammaticali del nostro dialetto. Per quanto esso abbia le grandi linee della lingua italiana, ha pure qualche aspetto grammaticale che gli è del tutto proprio.

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IL NOME O SOSTANTIVO.

Può essere anche in genovese nome proprio, o comune. Anche il nome proprio prende in genovese l'articolo: o Tognin, a Bedin, o Baciccia, a Cattainin, a Texo.

Bisogna sapere che i nostri vecchi tradussero in dialetto anche i cognomi, specialmente di nobili casate; così volsero i Pallavicino in Pravexin, i Doria in Döia, Cambiaso in Cangiäxo ecc.. Genovesi d'origine sono molti cognomi contenenti una x: Bixo, Frixõn, Maxena, Strexin, Strixêu, cognomi che furono più o meno massacrati col tentativo di italianizzarli.

Anche le parti del mondo prendono l'articolo: l'Europa, l'Asia, l'Africa, l'America, l'Australia. Così i nomi di nazioni: l'Italia, a França, a Germania, l'Inghiltæra. Non prendono articolo i nomi di città e di borghi: Zena, Rõmma, Pariggi, Bösanao, Roiêu, Beghae, Murta, Zemignan.

Prendono articolo invece le regioni: a Ligûria, o Piemõnte, a Lombardia. Così pure i fiumi e le isole: a Ponçeivia, o Besagno, a Palmaria, o Tin, a Gallinæa, come pure le città che hanno l'articolo nella lingua italiana: a Spezza, o Sascello, ecc. Qualche località prende l'articolo soltanto in dialetto: o Pä, a Martinn-a. Prendono l'articolo i nomi di montagne: o Beigua, o Dente, ecc.

Nei nomi comuni rileviamo come nel Genovese manca la distinzione nominale tra la pianta fruttifera ed il frutto. Mèi significa tanto il melo come la mela; pèi pero e pera; castagna il castagno e la castagna; noxe il noce e la noce e via.

Il frutto, o per meglio dire, la frutta, anche se al singolare, è maschile, prende al plurale il femminile: o mèi, e mèie, o figo, e fighe, o pèrsego, e pèrseghe.

Fanno eccezione i briccoccali e i brignoin.

Del resto çëxa significa tanto il ciliegio che la ciliegia; determinante è il contesto del discorso: quando diciamo: e çëxe son fiorïe evidentemente parliamo dei ciliegi; ma se diremo ûnna cavagna de çëxe intenderemo senza esitazione le ciliege.

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L'articolo è determinativo: o færo, a lamma, i brignoìn, e fighe, l'öfêuggio, o pèrsego oppure indeterminativo ûn o ûnna: ûn palazio, ûnna gëxa; al plurale dötrèi: dötrèi bibbin; oppure di: di merelli, o de al femminile: de gallinn-e, de articiocche, de castagne.

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GLI AGGETTIVI

L'aggettivo può essere:

  1. qualificativo: bello, brûtto, grande, piccin, rõsso, verde, bõn, grammo, ciæo, scûo, biondo, neigro, ecc. Segue generalmente il sostantivo: ûn lensêu pulito, ûn cappello neigro.
  2. indicativo, questo, quello: manca in genovese il cotesto: v'è per contro l'abitudine di completare l'aggettivo, come lo si fa in Francia, con uno dei suffissi chi, lì, là dicendo: questo libro chi, quell'erboo lì, quella casa là.
  3. possessivo: mæ, tò, sò (volg. teu, seu). Generalmente è preceduto dall'articolo: o mæ can, a tò sc-ciupetta, o tò cappello, i mæ nervi. Quando però si nomina singolarmente un familiare, l'articolo si omette: mæ fræ, nostro barba, vostra madonnä.
  4. numerale, che può essere cardinale (ûn, duî, trèi) o ordinale (primmo, secondo, terso). In Genovese i numeri ûn, duî e trèi prendono anche il genere del sostantivo cui si riferiscono, ûnna, due, træ. Si dice così duî bêu e due vacche, trèi bæ, træ pëgoe.

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I PRONOMI

Il pronome può essere:

  1. personale: mi, ti, lë per ambidue i generi: noiätri, voiätri per il maschile; voiätre, noiätre per il femminile, e così loiätri e loiätre. Raramente si dice noî, voi, e che valgono per i due generi.
  2. possessivo: o mæ, o tò, o sò, oppure a mæ, a tò, a sò. Quest'ultimo vale anche per il plurale, giacché significa tanto suo che loro. Richiamiamo il lettore alla diversità che esiste tra ûnna articolo e ûnn-a pronome.
    Chi à ûnna sigaretta? Eccone ûnn-a.
  3. relativo: chi, che: nel parlar corretto chi si usa come soggetto, e che come oggetto, come in francese qui e que. L'interrogativo trattandosi di persona è chi? Trattandosi di oggetto è cose?
    Questo libbro che ti lëzi o l'è un libbro chi insegna tante cöse. Va un pö a vedde chi sêunna. Cöse t'ae dïto?
    Per il plurale si usa solo che: I öxelli che cantan; e gallinn-e che fan e êuve; Cöse ti vêu mangiâ anchêu? Si può dire tanto Gh'è l'ommo chi porta e êuve, come ch'o porta e êuve.

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I VERBI


Quattro sono le coniugazioni genovesi. La prima ha l'infinito in â ed il participio in òu: parlâ, parlòu.

Altro deplorevole errore del Casaccia fu quello dell'accento circonflesso sulla o dei participii, scrivendo portôu, scordôu.

Abbiamo dovuto correggerlo in portòu, scordòu giacché l'appoggio sulla o è brevissimo, mentre l'accento circonflesso esprime generalmente un appoggio più lungo.

La seconda ha l'infinito in èi, il participio in ûo: taxèi, taxûo. La terza l'infinito in e non accentuata ed il participio in ûo: temme, temmûo.

La quarta l'infinito in î, e il participio in îo: finî, finîo.

Molti sono i verbi irregolari, ma si comportano poco diversamente dall'italiano: vedde visto; andâ andæto; fâ fæto; lëze lètto; dî dïto; frizze frïto; moî morto; offrî offerto, rende reiso, scrïve scrto, ecc.

Una particolarità della nostra parlata è quella che nella coniugazione dei verbi si raddoppia in tutte le flessioni della seconda e terza persona singolare il pronome personale; si dice così:

mi parlo
ti ti parli
lë o parla
, oppure a parla
mi andiö
ti ti andiæ,
lë o l'andiä
, o a l'andiä
mi sentieivo
ti ti sentiësci
lë o sentieiva
, oppure a sentieiva
mi ò sentïo
t'æ sentïo
lö o l'à sentïo
, o a l'à sentïo.

Come si vede, nella terza persona singolare quando il verbo o l'ausiliare comincia con vocale, s'interpone l'apostrofo.

Anche nel parlar comune, quando si omette il pronome principale, non si omette mai il secondo pronome:

t'æ visto? o l'à mangiòu.

I verbi riflessi si coniugano così:

mi me vesto
ti ti te vesti
lë o se veste
me son fæto a barba
ti t'ë fæto a barba
o se fæto a barba

Nel Chiavarese per dire che un bambino sorride, dicono: se rïe.

I verbi impersonali non prendono all'ausiliare salvo al passato prossimo: ciêuve, cioveiva, l'è ciovûo, lampezza, trõnn-a, neiva: l'è lampezzòu, l'è tronnòu, à fæto burrasca, l'è baexinòu.

Pare però che un tempo questi verbi prendessero la particella "o" come soggetto. Lo fa ritenere il grido dei ragazzi per le strade quando nevica: O neia!

Una regola importante è la seguente:

Quando un verbo che indica un'azione collettiva precede il soggetto, si mette al singolare, anche se il soggetto è al plurale. Si dice così: crêuva e fêugge, nasce i funzi, cazze e castagne, s'accûrtisce e giornæ, passa i tõrdi, s'impe e amandoe.

I verbi genovesi nel secolo scorso subirono una grave mutilazione con la perdita del passato remoto, che ricordo esisteva nelle filastrocche che udivo da bambino:

andascimo in te l'orto,
stescimo allegramente,
ascì ghe n'ëa de gente
de rispetto.

Oggi per indicare il passato non è rimasto che l'imperfetto ed il passato prossimo, anche per indicare cose antichissime.

Eva a s'è lasciä tentâ da-o serpente: Noè o l'à fabbricòu l'arca: Romolo o l'à fondòu Romma.

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LE PREPOSIZIONI

Le preposizioni sono semplici o articolate. Un'altra pietra d'inciampo per chi vuole adoperare il genovese senza conoscerlo a fondo.

La preposizione de con l'articolo o fa do, del, con l'articolo a, da, dell'.

Che pena vedere scritto de-o, de-a, veri barbarismi del nostro dialetto! No criâ coscì forte: no me fâ piggiâ di resäti. Fa portâ da legna, che se fa ciû freido.

Ò fæto dâ recatto a o bronzin ch'o spandeiva, da-o lattonë da Maddænn-a. A Nettin a l'è a Messa? No, a l'è andæta ä schêua a piggiâ a Cattainin. S'è misso o gregä, gh'è o gäro ai mõnti.

Altra preposizione comune è pe per: Levite de pei pê! La preposizione in si unisce all'articolo mediante una t: in to pozzo: in ta pûgnatta: bõgge che va in te stelle.

Pare che un tempo in si unisse direttamente all'articolo, come sembrano attestare espressioni rimaste: ino Campo, ino Rêuso, ino Priõn: a Sant'Olcese v'è un gruppo di abitazioni su una costiera montana, che viene chiamato ini mõnti. I Prati di Mezzanego in quel di Borzonasca vengono detti in dialetto Inepræ.

Su o sopra si esprime con in sce che si unisce all'articolo, a far in sciö teito, in sciä terrassa, in scë bûtteghe.

A l'è a föa da gatta möa, d'in sciö barî in sciä töa.

Con si articola con o cö, con a co-a, con i coî, con e co-e: Si dice così Lasagne cö tocco, troffie cö pesto, riso co-a tomata, polenta cö tocco de funzo; cöi coî bertoëli.

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GLI AVVERBI

L'avverbio può essere:

  1. di tempo: òua, a momenti, sûbito, da chi a ûn pö, vëi, anchêu, doman, tûtt'assemme, in sce l'atto, o meise intrante, ecc.
  2. di luogo: chi, lì, là, lasciû, lazzû, in çimma, in fondo, de d'äto, de sõtta, in faccia, davanti, de derë, drento, de fêua, a cantafî, ecc.
  3. di moto: adaxo, cianin, fïto, asbriòu, cõmme o lampo, ecc.
  4. di quantità: tanto, poco, poco assæ, troppo, ninte, pecoscì, pesso, ûn pö, abbrettio, manco, ecc.
  5. di modo: ben, mä, coscì, voentëa, pe forza, ä reversa, abbrettio (a vanvera), ecc.

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LE CONGIUNZIONI

Congiunzioni: e, ò, se, ma, pûre, ascì, ancõn, cõmme La e davanti a vocale non prende mai, e neppur la o, un d eufonico. Fa veramente pena il poeta che ricorre a tale zeppa per far camminare il verso. Da tale menda non rifuggì neppure il nostro Nicolò Bacigalupo, come non rifuggì da italianismi.

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INTERIEZIONI

Meglio non soffermarci in questo campo, e tanto meno passare ad esemplificazioni: è proprio qui che si sbizzarrisce il florilegio della parlata cruda del nostro popolo in forme che Orazio trepidava che i Satiri potessero portare sulle scene.

Anche quelle apparentemente più innocue non sono che eufemismi non troppo larvati.

Le più comuni e innocenti sono perdiesann-a, bàcciare, poscitoëse, poscito vegnî, zubbo.

Con quest'ultima parola si entra in un campo minato dove è pericoloso addentrarsi.

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L 'ACCENTO TONICO NELLA CONIUGAZIONE DEI VERBI

Per completare queste poche osservazioni grammaticali, vogliamo ancora richiamare l'attenzione del lettore sulle flessioni della coniugazione dei verbi, in rapporto alla posizione dell'accento tonico.

In molti verbi della prima coniugazione (respiâ, indoâ, remenâ, ecc.) quando l'accento della flessione si sposta sulla penultima sillaba, si ha un allungamento di questa (respïo, indöu) ottenuto talora con un raddoppiamento della vocale che segue (tribolâ, mi tribollo, remenâ, mi remenn-o) o con la sformazione della vocale semplice in dittongo (zûgâ, mi zêugo; trovâ, mi trêuvo).

Nei verbi della terza coniugazione che invece hanno un dittongo sulla penultima sillaba, come beive, il dittongo si fa vocale semplice quando perde l'accento tonico: mi beveivo.

Ed ora a proposito di coniugazioni un'interessante osservazione fonologica: nei verbi che come portâ e mollâ hanno all'infinito una "o" stretta e chiusa, nell'indicativo presente quando vi cade l'accento tonico, questa diventa larga ed aperta: mi porto, mi mollo: una conferma chiara della legge fonetica della quale poc'anzi facevamo cenno.

Così in quei verbi che hanno l'accento su una õ così graficamente contrassegnato, se nelle flessioni l'accento si sposta la lineetta soprastante va omessa, perché la o è diventata stretta di per sé. Mi m'ascõndo, all'imperfetto è mi m'ascondeivo: così confõnde, rispõnde: nel participio di quest'ultimo verbo diremo risposto con o largo, perché porta l'accento tonico. Viceversa l'indicativo mi m'accosto con o larga perché porta l'accento tonico, quando questo passa su altra sillaba la o diventa stretta e chiusa: mi m'accostieivo, sentiamo da nostri giocatori di bocce.

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