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Alfredo Gismondi
Nuovo Vocabolario genovese italiano
Fides, Genova, 1955

[ortografia e pronunzia] [vocali] [consonanti]
[particolarità grammaticali] [nome] [articolo] [aggettivo] [pronome] [verbo] [preposizione] [avverbio] [congiunzione] [interiezione] [coniugazioni e accenti]


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Ortografia e pronunzia

L’alfabeto genovese consta delle seguenti 24 lettere:

A  B  C  Ç  D  E  F  G  H  I  J  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  X  Z

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Le vocali sono cinque come nell'italiano: però debbono aggiungersi altri tre suoni che non esistono nell'italiano, e che sono:

  1. il suono d'una e moltissimo aperta espresso dal dittongo ae;
  2. quello che i francesi esprimono col dittongo eu e che da noi ha subito molte e varie grafie. non tutte felici, mentre primitivi lo avevano molto opportunamente indicato coi dittongo oe; nel XVIII secolo diventò oeu, e più tardi passo nell'attuale grafia êu, che è quella adottata solo in omaggio all'uso in questo vocabolario, sebbene a me paia molto più confacente all'usanze nostre l'antica di oe;
  3. la u lombarda che si esprime con û

Per venire alla pronuncia delle singole vocali, anzitutto dirò che il loro suono può essere lungo o breve: quando l’allungamento deve essere indicato nella grafia si fa sormontar la vocale dal segno della dieresi, ä, ë, ï, ö, ü. Così scriveremo ïsoa, ëse, cösa, müro, äze.

Una particolare considerazione merita la pronuncia della o. Questa vocale ha nel genovese due pronunzie molto diverse, una larga ed aperta. come nella parola porta, ed un'altra strettissima e chiusa tale da riuscire praticamente u, come in teito, libbro. bollitigo. E v'è una legge generale secondo la quale la o si pronuncia aperta quando vi cada l'accento tonico della parola: in tutti gli altri casi si deve sempre pronunciar chiusa, e non v'è perciò bisogno di segni grafici particolari. Vediamo ora le eccezioni a questa regola.

  1. Vi sono parole nelle quali l'accento tonico cade sopra una o, che tuttavia deve pronunciarsi chiusa: in tal caso però nella grafia la si fa sormontare da una lineetta, õ. Così nelle parole mõnte, õrso, tõrta, trõmba, cõsto, ecc. Quando però nei derivati di queste parole l'accento tonico anziché sulla o viene a cadere su un'altra sillaba, la o diventa di per se stessa chiusa, e non v'è che scriverla semplice senza segno alcuno: così orsetto, montagna, tortaea, trombettê, costettin. Casaccia errò mantenendo anche in queste parole la õ.
  2. Vi sono altre parole nelle quali la o, pur non portando l'accento tonico, deve pronunciarsi aperta e non chiusa: queste sono:
    1. le parole con o iniziale: offerta, offeisa, ottanta, omisciõn, ostaia, offiziêu, ecc.
    2. parole composte, nelle quali la prima parte porta una o aperta, sebbene nel composto non più accentuata, come in portafêuggio, cornabûggia. In tal caso non si richiede alcun segno particolare, che invece sarà necessario se la o iniziale, anche portante l'accento tonico debba pronunciarsi chiusa, come in õrso, õrdine, õrmo, õmbra.

Non altrettanto precisa la regola per la pronuncia della e. Anche questa vocale ha una pronuncia aperta come nella parola erba, ed una stretta come nella parola zetto.

La e è generalmente aperta quando vi cade l’accento tonico ed è seguita da r seguito a sua volta da altra consonante: così in çerto, averto, merçe, sterso, guerso; ritorna però stretta quando perde l'accento tonico çertessa, avertûa. stersâ, inguersî. Lo stesso avviene quando è seguita da l seguito a sua volta da altra consonante elmo, feltro, svelto, ridiventando stretta in elmetto, feltròu, sveltessa. Questa legge però non vale per la e seguita da s ed altra consonante poiché se è aperta in festa, resto, contesto, è invece chiusa in testa, presto, pesto, questo, ecc. Vi sono parole che hanno una grafia uguale ma diverso significato a seconda che la e è chiusa od aperta: letto con e chiusa è il letto; con e aperta è il participio del verbo lëze; così tèsto con e aperta è il testo (di legge, ecc.) e testo con e chiusa è la tegghia; pèsta con e aperta significa la peste (oppure anche ma che!) mentre pesta con e chiusa è la terza persona singolare indicativo del verbo pestâ. Come si vede, in questi casi si suole contrassegnare la e aperta con l'accento grave.

La u ha le stesso suono che ha nell'italiano. Per contro la û con accento circonflesso è il segno grafico della u lombarda o francese che dir si voglia.

Contrariamente a quanto fa Casaccia, noi scriveremo sempre così la û anche breve e finale, come in ciû, virtû, sciû, zû, eppû. Il voler adoperare in questi casi l'accento grave falsa addirittura la pronuncia creando anche confusioni poiché vi sono parole nel nostro genovese le quali terminano con ù che va pronunziato come u italiana: cito le parole, prezù e scuccuzù.

Dicemmo che il segno della dieresi serve a indicare una vocale prolungata. Vi sono pero certi casi in cui una ö con il segno della dieresi va pronunciata assolutamente chiusa questo avviene per distinguere il significato di quelle parole da quello di altre di uguale pronuncia ma scritte con la consueta grafia. Così si distingue:

, loro da , lupo
, col da , colore
sciö, signore da sciõ, fiore
in sciö, sul da in sciõ, in fiore

Salvo queste poche eccezioni la ö si pronuncerà sempre come o aperta e prolungata.

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Per venire ora alle consonanti, diremo che la ç si pronuncia sempre come s aspra. La x ha in genovese una pronuncia assolutamente propria come una j francese.

La s ha come nell'italiano due suoni, uno aspro e sibilante come nella parola semenza, ed un altro dolce quasi di z come in creusa, reisa, accûsa.

Ha suono aspro:

  1. quando in principio di parola è seguita da vocale oppure dalle consonanti c dura f, p, q, t, come scappâ, sentî, sordatto, sûppa, sfigûrâ, spavento, squaddra, stae.
  2. quando nel corpo della parola è preceduta da n, r, come õrso sterso, sguerso, oppure è tra due vocali di cui quella che precede porta il segno della dieresi: imböso, fäso, ëse. ïsa, cäsetta, cösa; fa eccezione la s della parola ïsoa che si pronuncia dolce come nell'italiano isola.
  3. nel pronome se unito all'infinito d'un verbo riflesso: lavâse, strenzise, spremmise, addormîse.

Ha invece suono dolce:

  1. in mezzo a due vocali senza segno di dieresi: casa, naso, vasetto, rêusa, ûso, accûsa.
  2. quando è seguita dalle consonanti b, d, g, l, m, n, r, v: asbrïo, desdiccia, sguäro, slavòu, asmûggiâ, snatûròu, sregolòu, svista, svampî.

Un suono tutto particolare che il genovese ha in comune con la lingua russa è quello espresso graficamente con sc-c, e si pronuncia come un ch francese o un sh inglese seguito immediatamente da una c dolce italica come nelle parole masc-cio, sc-cetto, sc-ciûppetta, rasc-ciâ.

Anche la z ha in genovese due suoni ben distinti: uno aspro come una s aspra, ozio, grazia, aziõn, ed un altro, spiccatamente dolce, come in zazzûn, ziëlo, zorzo, mazzo, zerbo.

Da tempo s'è introdotto nel genovese l'abuso di sostituire addirittura la z alla s dolce in parole che nell'italiano hanno effettivamente una s dolce: così invece di rêusa si scrisse rêuza, zeneize invece di zeneise, marcheize invece di marcheise; Casaccia arriva a scrivere preiza, inteiza. Per conto nostro crediamo opportuno abbandonare quest'uso che non ha giustifica­zione alcuna e ritornare alla s dolce conformemente alle leggi glottologiche: si eviteranno così confusioni inopportune, tanto vero che Casaccia mentre scrive ûzo e pertûzo, poi scrive invece accûsa. Diremo pertanto offeisa, difeisa, peiso, preisa, ecc.

Un suono spiccatamente nasale ha nel genovese la n finale: pan, seren, piccin, çetrõn, ûn; tale pronuncia nasale si mantiene anche in parole terminanti con vocale preceduta da nn­- come campann-a, schenn-a, tinn-a, scõnn-a, lûnn-a nelle quali la n assume una pronuncia gutturale tutta particolare.

Nota: nei dialetti liguri di valle Stura lo stacco nella pronuncia avviene tra due n lûn-na, campan-na.

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Particolarità grammaticali

La grammatica del nostro dialetto genovese, se pure ha le grandi linee della grammatica italiana, non manca di tratti particolari i quali le impartiscono una sua caratteristica fisionomia. Vale perciò la pena di analizzare un po’ da vicino questi tratti caratteristici, sebbene noi li applichiamo di fatto ogni giorno senza avvedercene e li sentiamo applicare nella parlata dai nostri concittadini, così come li apprendemmo da bambini dai nostri genitori e familiari, tramandati delle generazioni che li precedettero. Faremo quindi una rapida scorsa in tutti gli elementi grammaticali, lasciando deliberatamente da parte tutto quello che è comune alla lingua italiana ed al nostro dialetto, per mettere in evidenza tutto ciò che a quest'ultimo è prettamente caratteristico.

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Il nome o sostantivo è, come nell'italiano, proprio o comune, maschile o femminile. Il neutro non esiste nel nostro dialetto. Non v'è una declinazione, e i vari casi o complementi si designano mediante preposizioni: de per il genitivo, a per il dativo, da per l'ablativo. Così possiamo dire: ò faeto da reccatto a-o bronzin ch’o fava danno da-o lattonê da Maddaenn-a. Ritorneremo parlando delle preposizioni articolate.

I nomi propri di persona prendono in genovese l'articolo, tanto i maschili che i femminili. Diciamo così: o Bacciccia, o Giêumo, o Tognin, o Drìa, a Bedin, a Momminn-a, a Catainin, a Texo. I nostri vecchi tradussero in genovese persino i cognomi, specialmente delle nobili casate: così Pravexin i Pallavicino, Dòia i Doria, Negrõn i Negrone, Cangiaxo i Cambiaso, Dûrazzo i Durazzo, Quiêu i Queirolo, Ciöson i Chiossone, Gaibado i Garibaldi; oltre a molti cognomi originariamente genovesi, e specialmente quelli contenenti una x (suono della j francese}, come Bixo, Lûxöu, Frixõn, Strexin, Maxena, Strixêu; ed altri, più o meno malamente tradotti oggi in italiano.

Anche i nomi di parti del mondo, di nazioni, e regioni, portano l’articolo: l’Europa, l’America, l’Italia, a França, a Spagna, o Portogallo, a Ligûria, o Piemonte, a Lombardia. Per contro non pren­dono l'articolo nomi di città, di borghi e villaggi: Zena, Rõmma, Pariggi, Lisbõnn-a, Rapallo, Savõnn-a, Camõggi, Bösanaeo, Murta, Beghae, Bargaggi, Capenardo. Diciamo invece a Spezza, a Scoffera, e Vignêue, e Cabanne, i Frixoìn, che anche in italiano hanno l'articolo; oltre ad altri, come o Pä, o Sascello, a Steia, l'Orba, a Martinn-a, che oggi un italiano l'hanno perduto Anche le isole e i fiumi hanno l'articolo o Besagno, a Ponçeivia, a Palmaria, o Tin, a Gallinaea.

Una particolarità del dialetto genovese è quella che non ha, come l'italiano, due denominazioni per distinguere l’albero dal frutto, cioè maschile il primo, generalmente femminile il secondo. Così méi indica tanto il melo che la mela péi il pero e la pera; pèrsego tanto il pesco che la pèsca, sciorboa tanto il sorbo che la sorba; çëxa tanto il ciliegio che la ciliegia, ecc.; anche i frutti maschili al singolare méi, péi, pèrsego, figo prendono al plurale il femminile meie, peie, pèrseghe, fighe; fa eccezione bricòccalo che è maschile anche al plurale, bricoccali e brignõn pure maschile, brignoìn. Uga funge come uva in italiano da collettivo e non prende plurale, se non per significare le qualità d'uve. Per questo castagna significa tanto il castagno che la castagna, noxe il noce e la noce, nisseua il nocciolo e la nocciola, oiva tanto l'ulivo che l'oliva, sersa tanto il gelso che la mora di gelso.

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L'articolo è:

  1. determinativo, o, a per il singolare davanti a consonante; i e e per il plurale tanto davanti a consonante che a vocale: l' davanti a vocale al singolare. Così o carõggio, a stradda, o sõ, a lûnn-a, l'arba, l'erboo, l'orto, l'inguento, l'õmbra, l’ûso, i ûsi, i orti, i erboi, e õmbre, e erbe, e stradde, i caruggi, e, stelle, i unguenti.
  2. indeterminativo ûn, ûnna, e al plurale di, de: ûn bae, ûnna crava, ûn ommo, ûnna donna, di figgiêu, de figge; ed anche in modo collettivo, do fen, dell'ûga, de patatte, do gran, di erboi, de noxe, de articiocche, di merelli.

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L'aggettivo è:

  1. qualificativo: bello, brûtto, grande, piccin, storto, drïto, sci­vertòu, bravo, cattino, bõn,. grammo, verde, rosso, ecc. Si colloca a volontà prima o dopo del sostantivo: ûn ommo bravo, ûn brav’ommo; ûn quaddro bello, ûn bello quaddro, benchè nella parlata esistano sfumature tra l'un modo e l'altro, che solo la pratica è capace di insegnare;
  2. indicativo: questo, quello: il cotesto italiano manca nel genovese. Spessissimo nella parlata questi aggettivi si completano come nel francese, col suffisso chi, lì, là, questo libbro chi, quello fiõre lì, quella casa là.
  3. possessivo: mae, tò, sò (volg. têu e sêu), nostro, vostro (oppure nostra o vostra), , (o sêu). È' generalmente preceduto dall'ar­ticolo: o mae can, a mae sc-ciûppetta, o tò cappello a sò casa, a vostra famiggia, i mae nevi, i nostri barbi e e sò lalle. Nominando un fami­liare singolarmente però l'articolo si omette. Mae frae, tò sêu, sò moae, vostro cûgnòu, sò sêuxoa, nostra madonnä, vostro barba.
  4. numerale, tanto cardinale (ûn, duî, tréi, ecc.) come ordinale (primmo, secõndo, terzo, ecc.). Una particolarità del genovese, è che non solo l’uno prende il genere maschile e femminile del sostantivo al quale si riferisce, ma anche il due e il tre. Così si dice ûn bibbin e ûnna bibbinn-a, ma anche duî bibbin e due bibbinn-e; tréi bêu e trae vacche. Quando ûn è adoperato come pronome (ghe n'é ûn) il suo femminile invece di ûnna, diventa ûnn-a. T'ae miga ûnna penna? Chi ghe n'é ûnn-a

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Il pronome è:

  1. personale: mi, ti, lë, che valgono per entrambi i generi: noiätri o noiätre, voiätri o voiätre, loiätri o loiätre. Raramente si dice noî, voî e .
  2. possessivo: o mae, o tò, o sò (oppure a mae, a tò, a sò) o nostro (o a nostra), o vostro (o a vostra) o sò (o a sò). Quella casa lì a l'é a nostra, questo cavallo o l'é o mae, chi gh'é ûn libbro ch'o l'é o tò;
  3. indicativo: questo chi cos'o vêu? - mi quello là no l'ò mai visto e mai conosciûo,
  4. relativo: chi e che. Chi dall'interrogativo indica persona: chi o l’é staeto? Per indicare un oggetto l'interrogazione è cöse? Cöse l'é tanto ramadan? Al singolare chi e che in una proposizione affermativa o negativa si usano come in francese qui e que; ossia chi riferito al soggetto, e che al complemento oggetto. Così diciamo: questo o l'é ûn cotello chi taggia ed anche o libbro che ti lezzeivi o l’é ûn libbro chi insegna tante cöse, o l'é ûn ommo chi sa o faeto sò. Per contro al plurale del soggetto si usa il che: e gallinn-e che no fan d'êuve, i öxellí che cantan e fan o nïo gh'é e fighe che matûran. A ben considerare, il chi corrisponde ad una crasi di che e o, ch'o­ talchè si può dire l'ommo ch'o l'acchêugge e fighe, e l'ommo chi l’acchêugge e fighe.

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I verbi. Accennai già che le coniugazioni dei verbi genovesi sono quattro. La prima ha l'infinito in â e il participio in òu: arrivâ, arrivòu; la seconda ha l'infinito in éi e il participio in ûo: taxéi, taxûo, la terza ha l'infinito in e non accentuata, ed il participio (nei regolari) in ûo: temme, temûo, la quarta ha l'infinito in î ed il participio in ïo: finî, finïo.

I verbi irregolari si comportano ben poco diversamente dall'italiano: vegnî ha il participio vegnûo; vedde, visto; andâ, andaeto; fâ, faeto, stâ, staeto; lëze, lètto; correzze, corretto; crovî, coverto; arvî, averto; rende, reiso; prende, preiso; scrïve, scrïto; dî, dïto; frizze, frïto, moî, morto; offrî, offerto.

Una particolarità della coniugazione dei nostri verbi genovesi è il raddoppiamento del pronome personale alla seconda e alla terza persona del singolare, in tutte le flessioni della coniugazione:

mi mangio ti ti mangi lë o mangia (o a mangia)
mi scriveivo ti ti scriveivi lë o scriveiva (o a scriveiva)
mi taxiö ti ti taxiae lë o taxiä (o a taxiä)
mi dieivo ti ti diëisci lë o dieiva (o a dieiva)
mi ò finïo ti t’ae finïo lë o l’à finïo (o a l’à finïo)

Come si vede, alla terza persona quando il verbo o l'ausiliare comincia con vocale s'interpone un l': così si dice pure o l’andiä, o l'arriva, o l'impe, o l'insegna, o l'é seccòu, o l’à averto.

Anche quando nel parlar comune si tralascia il pronome alla prima persona, alla seconda e terza resta sempre il pronome secondario ti, o a. Mangio, ti mangi? o mangieiva. Cös'o fa? Cöse ti inandi? Mi me pä ch’o dorme. Ne gh’é verso ch’o s’adesce.

I verbi riflessi si coniugano con questa norma:

mi me vesto ti ti te vesti lë o se veste
mi me son addormïo ti ti t'ë addormïo lë o s'é addormïo

Cosi si dice me son faeto a barba, ti t’ae faeto a barba, o s’é faeto a barba. Allõn, vestite!

Nel Chiavarese per dire che un bimbo sorride, dicono: O se rïe.

I verbi impersonali non prendono articolo, salvo al passato prossimo, quando si adopera l'ausiliare ëse o avéi: ciêuve, neiva, lampezza, trõnn-a, bexinn-a; l’é ciovûo, l’é nevòu, á faeto burrasca.

Pare tuttavia che un tempo vi fosse l'uso di far precedere, come in francese, l'articolo o. Lo fa pensare il grido dei ragazzi per le strade quando nevica: o neia!

Quando un verbo indicante un'azione collettiva precede il soggetto che è al plurale, si comporta come quasi un verbo imper­sonale e resta così al singolare. Crêuva e fêugge; cazze e castagne; nasce i funzi; passa i tordi; s'accûrtisce e giornae; ma se si costruisce la proposizione mettendo prima il soggetto, il verbo concorda anche nel numero. E fêugge cêuvan, i funzi nascian, e giornae s'accûrtiscian.

I verbi genovesi subirono nel secolo scorso una grave mutilazione e fu la perdita del passato remoto. Lo troviamo ancora in Martin Piaggio e specialmente nelle sue favolette:

sciortì allõa da-a sò tannetta
ûn grilletto, e prinçipiò
a canta a sò cansonetta.

ed ancora in un'altra:

ûn sï-sï de raetin
de quelli ben piccin,
ûn giõrno ch'o passò
da ûn lago, o se spëgiò:
e in vedde e sò ciûmminn-e
con tante pittettinn-e
o disse: m'assûmeggio.
...

Ho ancora nell'orecchio una filastrocca che sentivo i vecchi ripetermi nella mia infanzia:

andascimo in le l'orto
stescimo a1legramente
a scì ghe n'ëa de gente
de rispetto.
Mangiascimo ûn laccetto
...

Oggi non è rimasto, accanto all'imperfetto, che il passato pros­simo fatto coi due ausiliari ëse e avéi. Anche i fatti più lontani sono espressi con questo. Romolo o l’à fondòu Rõmma. Virgilio o l'à scrïto l’Eneide. Dante o l'é staeto in esilio. Eva a s'é lasciä tentâ da-o serpente.

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Le preposizioni seguono in genere le regole delle preposizioni italiane: non è male pero esaminare certe particolarità delle preposizioni articolate, come già accennavo.

  1. de: do (del), da (della), di (dei o degli), de (delle). O l'é o figgio do Drìa; o frae da Bedin; o bosco di' fratti; i figgiêu de schêue. Si usa anche come partitivo: ghe n'é da früta? Mangio do pan e de fighe; Ti me fae piggiâ di resäti; Besêugna fâ portâ de legne, do carbón e di riççi; Chi de gas no ghe n'é, ma gh'é invece ûn bell'angiòu d’ûga.
  2. a: a-o (al), a-a oppure ä (alla), a-i (ai o agli), a-e (alle). Te-o diggo a ti; ghe l’ò daeto a lë; o l'é ä schêua; vaddo a-o tiatro; a Rosin a l'é ä predica; gh’é o garo a-i monti; fasso da o verde a-e giöxie; dà un po’ de mondaggin a-e gallin-e.
  3. Pe (per): pe-o, pe-a, pe-i, pe-e o pë; te piggio pe-o collo; ò ätro pe-a testa! levite de pe-i pë! che remescio pe-e stradde!
  4. in: si articola per mezzo della particella te con la quale si fonde l'articolo: in to, in te, in te l: in t’ûn momento; in t’ûnna stanza; in to feugo; in ta poëla; in to tianin; in te l’aegua; in ti pastissi; in te sbigge, in ta stacca. Si usa anche come nell'italiano senza arti­colo: in mâ, in çe, in taera, in cûxinn-a, in cantinn-a, in barca. Nel genovese antico pare si facesse sovente seguire l'articolo immediatamente a in prima del sostantivo: residuano ancora nel nostro popolo certe indicazioni topografiche che conservano quest'uso ora scomparso; si dice così ancora ino Campo, ino Priõn , ino Rêuso; a Sant'Olcese v'e ancora un gruppo d'abitazioni su una costa montana che è chiamato ini mõnti. Il nome dialettale dei prati di Mezzanego nel Chiavarese è ine Prae.
  5. in sce (su): si dice in sce-o teito ma meglio in sciö teito, in sciä ciassa, in scë bûtteghe, in scï terrapin, in sce l'arta, a l'é a föa da gattamöa d’in sciö barî` in sciä töa.
  6. cõn: (col), cõ-a (con la), cõ-i (coi o con gli),cõ-e (con le), cõ vento in poppa, cõ sc-cêuppo vêuo, õ-a pansa pinn-a, cõ-i êuggi bassi; cõ-e braghe in man; cõ tõcco, cõ pesto, cõ-a tomata, cõ tõcco de funzo, cõ bûtiro. Se senti dire a-o pesto, o peggio a-o sûgo, quello è sicuramente un foresto, a meno che non sia un genovese assai povero di spirito.

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Avverbio:

  1. di tempo: oua, a momenti, sûbito, da chi a ûn pö, ûn pö fa, anchêu, vëi, vantëi, l’ätro giõrno, a settimann-a passä, zêuggia chi ven, o meise intrante, doman, doppo doman, primma, doppo, in to maeximo tempo, in sce l’atto, tûtt’assemme, ecc.
  2. di luogo: chi, lì, là, lasciû, lazzû, in çimma, in fondo, de d’äto, de sõtta, in faccia, davanti, de dietro o derë, drento, de fêua, a cantafî, ecc.
  3. di moto: cianin, adaxo, fïto, spedïo, asbriòu, cõmme o lampo, ecc.
  4. di quantità: tanto, poco, troppo, pocassae, assae, pe coscì, pesso, ninte, ûn pö, ben ben, abbrettio, manco. No gh’é manco ûnn’anima; de guardie no ghe n’ëa pesso, sordatti invece abbrettio;
  5. di modo: ben, mä, coscì coscì, voentëa, pe forza, ä reversa, apposta, pe rïe, pe davvéi, ä bell’ä mëgio, abbrettio (a vanvera), ecc.

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Congiunzioni: e, o, se, ma, però, pûre, scibbén, ancõn, invece, cõmme, perché, ecc. Nel dialetto genovese le congiunzioni e ed o come neppure la preposizione a prendono mai una d davanti a parola che incominci con vocale. Fa veramente pena il poeta che non si perita di usarla, e come zeppa per far camminare il verso. È cosa assolutamente riprovevole e innaturale nel nostro dialetto, a questo rimprovero non sfugge neppure il nostro bravo e indimenticabile Nicolò Bacigalupo nella sua traduzione dell'Eneide.

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Interiezioni. Crederei meglio non parlare affatto delle interiezioni del dialetto genovese, specialmente di quelle di meraviglia piuttosto che scendere ad esemplificazioni. È qui che si riversa il florilegio della parlata cruda e espressiva del nostro popolo ma in forme che Orazio trepida che i Satiri possano osar portare sulla scena. Rammenteremo solo le più comuni e più innocenti: perdïe, perdiesann-a, poscitoëse, pòscito vegnî, bàcciare, zûbbo.

Con quest'ultima parola entriamo in un campo minato nel quale è assai miglior cosa non avventurarvisi. Troveremo anche voci apparentemente innocenti, ma che in fondo sono eufemismi che mascherano parole da non usarsi affatto in famiglia o in buona società.

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Per ultima cosa giova considerare il comportamento di certi verbi nelle flessioni della coniugazione in rapporto alla posizione dell'accento tonico.

Nella prima coniugazione in cui nell'infinito l'accento tonico cade sull'ultima sillaba (mangiâ), quando questo nelle flessioni si sposta sulla penultima, la vocale di questa spesso si allunga sia ricevendo il segno della dieresi (respiâ, mi respïo; indoâ, mi indöu) oppure raddoppiando la consonante che segue (tribulâ, mi tribollo; remenâ, mi remenn-o), od anche cambiandosi in dittongo (pesâ, mi peiso; trová, mi trêuvo; zûgâ, mi zêugo). Ciò accade anche per qualche verbo della quarta (crovî, mi crêuvo; moî, mi mêuo; corrî, mi cõro).

Nei verbi della terza che generalmente hanno l'accento tonico sulla penultima sillaba, che è allungata o dittongica, accade il fatto opposto, ossia nelle inflessioni in cui l'accento si sposta, questa vocale si abbrevia o si semplifica se dittongica. Così nei verbi ciêuve, ciovûo, beive, mi beveivo. scrive, scriveivo.

È anche interessante osservare come verbi con una o non accentuata e chiusa, coniugati in inflessioni in cui su questa o viene a cadere l'accento, questa diventa pure aperta. Così portâ, mollâ, al presente indicativo singolare fanno mi porto, mi mollo. È una conferma della legge fonetica alla quale accennai da principio.

Ora per terminare, un saluto in genovese ai miei buoni Lettori: Allegri, ve reveiscio, salûte.

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