Padre Angelico
Federico Gazzo La «Divina Commedia» tradotta in genovese Genova, 1909 |
ILLUSTRAZIONE DELLA CHIAVE ORTOGRAFICA
Ortografia vale retta scrittura, e tale non può essere se non dispone dei necessarii caratteri, onde rappresentare i suoni tutti di un linguaggio, senza confusioni né deficienze. Or siccome all'Alfabeto latino tali segni fanno difetto, la vera ortografia, per tutte le lingue che se ne giovano, non esclusa l'italiana, è un pio desiderio. Fin da principio gli Scrittori si son trovati alle prese con due difficoltà, per la convenienza di rappresentar i suoni senza tradire l'etimologia dei vocaboli. Di qui due metodi che combattono per la prevalenza: l'etimologico poco curante della rappresentazione fonetica, facendo assegnamento sulla pratica del lettore; il fonetico che, viceversa, si attiene a questa, lasciando agli intelligenti la ricerca dell'etimologia. Il meglio che per conciliarli si è potuto escogitare è di allontanarsi il meno possibile dal primo, giovando al secondo con accenti e con nessi di lettere regolati da norme più o meno fisse, a ciascun idioma speciali. Per ciò che concerne l'italiano, basti rammentare le assennate proposte del Petrocchi e divulgate co' suoi Dizionarii, per agevolare «la precisione della pronunzia che importa all'unità della lingua, e importa alla scienza». L'idioma che meno pensiero si sia preso della rappresentazione fonetica (ma che con gran cura vi provvede nelle scuole) è l'inglese; e qualcosa di simile è avvenuto nel nostro. La ortografia genovese è sempre stata oscillante fra i due metodi, variando nel corso dei secoli, secondo il gusto degli scrittori; come si vede confrontando le diverse edizioni di un medesimo autore, l'ortografia del secolo XVI con quella del XVIII (Gerusal. deliverä', Cavalli, ediz. 1665 e 1745, De Franchi ecc.) e con le diverse del secolo XIX, fra cui quelle della Stamperia Casamara, del Sciô Tucca, dell'Olivieri, del Piaggio, del Randaccio; né guari persuade il metodo del Casaccia, perché qua e là incerto e poco razionale, onde in più parti riesce inferiore all'antico del De Franchi e della Gerusalemme. Infatti nessuno segue appuntino il suo Vocabolario, e tutti vi fanno qualche strappo, principalmente in ciò che riguarda l'accentatura.
Ciò avviene perché, mentre ogni lingua a poco a poco, s'è foggiata quell'ortografia che meglio le si confà, al genovese, che se la veniva foggiando, fu strappato di mano il lavoro, per adattargli l'ortografia dell'italiano, con qualche rabberciamento. Eppure il genovese ha suoni, modulazioni, rafforzamenti, note rapide e note sostenute; una fonologia tutta propria, cui mal può rappresentare l'ortografia toscana. Ma non tutto quel che converrebbe si può avere, e ormai giacché o bene o male gli si è adattata l'ortografia italiana, e a questa è avvezzo l'occhio dei lettori, a questa conviene acconciarsi. Quindi la seguiremo più che sarà possibile, ritornando, ove convenga, all'antica, ma rivolgendo cura speciale all'accentatura, per rappresentare con esattezza la pronunzia, anche a comodo degli altri italiani e forestieri che volessero formarsi un'idea del nostro idioma, e della ragionevolezza e delicatezza della sua pronunzia. Pertanto:
Benché criticata, conserviamo la antica grafia dell'x riservata al suono spirante sonoro palatale continuo (simile al j francese e al gi intervocalico toscano detto assibilato). Rappresentò già due suoni, cioè anche il relativo sordo, (nella stessa Ger. XI, 31 si trova saxæ per sascæ) potendo l'x dirsi dolce ovvero aspro, secondo l's che in esso va unito al c o al g; ma il sordo ora si rappresenta all'italiana con nesso sce, sci. Né, come altri vorrebbe, si potrebbe all'x sostituire l'j gallico, perché vi si oppone l'etimologia. Il nostro x non proviene dall'j né dal ge, ma esso è un raddolcimento ulteriore delle sibilanti sonore s, z specialmente seguite dall'i, p. es. paeyxi, axi, Brœxo, fûxón; oppure corrisponde ad un ci scempio intervocalico latino: come p. es. dexe, camixa, fôxe, cruxe, piaxey, trexento, rayxe, axòw, axeròw (acereto, male tradotto in assereto), veraxe, maxëa, ecc. e solo per eccezione dal g, come in prexo, Venexa (ant. da Vineqia) ecc. Del resto i dialetti lombardi usano, in tali casi, la z; i sardi il gi; e anche nel toscano antico si legge tregènto, piagere ecc., mentre sopravvive dugènto con altre voci. in cui il gi assibilato suona come il nostro x. In alcuni paesi della Riviera di Levante manca questo suono, e vi si sostituisce il sordo, onde il c intervocalico vi prende il suono romanesco strascicato come sce: crüsce, camïscia, rûscentä' ecc. Meglio sarebbe rappresentare questi suoni (almeno quando l'x ed il nesso sc non sono etimologici come in scena, exempio) coi digrammi zh, sh essendo l'h un segno di palatizzazione nelle lingue romanze; ed infatti i nostri antichi usarono ch per ci, e talora sh per sci; ma ora siffatta ortografia avrebbe l'aria di novità, e, per quanto ragionevole, recherebbe confusione.
Conservandosi il nesso italiano sci, col ce, ci palatale, si
conserva per coerenza anche la grafia del nesso scce per il palatale esplosivo
nostro speciale, che stacca questi due suoni, per es.:
Ripristiniamo l'ñ sovralineato per l'n faucale (come si vede nella
Gerusal. 1755), più spiccio dell'n-, che però può usarsi in mancanza
del tipo speciale. È da rigettarsi il digramma nn-, perché se conveniva alla
pronunzia antica (ora rimasta in montagna e nel Monferrato), che faceva sentire un
n faucale seguito da un altro n dentale, ormai questa è caduta: quindi
non più
Parimente si rimette in onore l'antico ç zedigliato, che così bene distingue la sibilante sorda proveniente dal t o dal c latini, ed a cui male sostituiscono altri quando l'ss (doppio) e quando la z aspra, estranea affatto al genovese (come pure al greco, al francese, allo spagnuolo e portoghese ecc.). O perché introdurre nel genovese quella confusione di cui si dolgono i grammatici italiani, e che tanto nuoce alla retta pronunzia, per più che con differenti lettere tentino di rimediarvi i lessicografi? - Più giudiziosi i Rumeni, conservando alla z il suo suono ronzante, hanno adottato, pel suono aspro, il t zedigliato; e molte incertezze e confusioni avrebbero tolte gli antichi toscani se avessero distinto i due suoni con le due lettere z e ç, antichissima questa, negli alfabeti italici.
Il c palatale dopo una consonante prende il suono sibilante, e così pure se doppio, o iniziale, e talora anche semplice intervocalico. Però in parecchie parole letterarie, o quasi, l'uso moderno urbano ha introdotto la pronunzia italiana, ma non sempre esatta: p. es. eccesso, eccellente, societæ, sûccesso, incenso, precizo, precede, cigno, celeste, e qualche altra; da più antica data faccia, cacciâ, ma anticamente façça, caççâ. Ritenute queste due, per le altre seguiremo la vera ortografia genovese che vuole il ç, lasciando libero il lettore di pronunziare come crede.
Tolta l'ambiguità fra le zete, conviene far altrettanto fra i due suoni dell's, e qui ci viene in aiuto l'uso antico, che se urta un po' con l'etimologia, rappresenta nettamente ogni suono. Nella Cittara 1745, nella Gerusal., e nelle edizioni del Gexa (1772), imitate dal Pagano, dal Casamara (1847) e da altri, all's si conserva il solo suono aspro, (onde si distingue dal ç per ragioni di etimologia); e abolito l's ronzante, vi si sostituisce sempre la z, che ne rappresenta il suono. (Ben sarebbe giovato un tipo speciale; p. es. un s lungo o col puntino, come fu proposto per l'italiano, ma siffatti tipi non sono facilmente reperibili). Questa sostituzione è d'antica data, e si riscontra perfino in parecchie iscrizioni greche, che usano il ζ per il σ raddolcito davanti alle consonanti sonore β, δ, φ, γ, λ, μ, ν (cfr. Niemann & Goeltzer: Gramm. comp. du Grec et du Latin, Paris, Vol. I, Du Collin). Non essendoci per noi pericolo di errare davanti alle consonanti, ci basti di usar la z fra due vocali, quando sia il caso. - Con tale norma non si cade nella incoerenza di usare ora l's ora la z senza criterio, come avviene al Casaccia che mentre segue l'ortografia etimologica, registra parecchi vocaboli con la z anzichè con l's: aze, rœza, mûza, bauza, corteyze ecc.
Nemmeno dispiacerà di ripristinare l'uso facoltativo del k per ch, cosi comodo, e che viene in acconcio per distinguere il senso di parole omofone; per es. chi pronome da ki avverbio.
Per le vocali i, u abbreviate, giova seguire la grafia dell'Archivio glottologico che le rappresenta con y, w; quindi i dittonghi rapidi saranno rappresentati da ay, éy, œy, òw; anziché ,da aì, eí, ôu, grafia impropria, specialmente nell'ultimo malamente sostituito dal Casaccia all'antico ao, aou, anche in contraddizione col suo metodo, che col circonflesso distingue l'o chiuso.
Per gli antichi l'u rappresentava il suono gallico, senza verun accento, onde nei casi in cui conservava il suono latino, vi sostituivano l'o, p. es. sorco, volpe, corso, pòpolo, spesso senza darsi pensiero di distinguere il suono aperto. È da rammentare, però, che il gruppo latino unct in genovese faceva oint: pointo, vointo, zointa, come tuttora si sente in campagna.
Fra i moderni, alcuni vorrebbero ritener l'o per il solo suono aperto, rappresentandone con l'u il chiuso, che per noi equivale all'u italiano. Altri invece, col Casaccia, seguono in massima l'ortografia italiana, usando ora l'o ora l'u, non senza molte incoerenze e incertezze. Giacché generalmente questo metodo ha la preferenza, lo seguitiamo, attenendoci però costantemente non all'ortografia italiana, bensì alla latina, da cui viene direttamente la nostra.
Le innovazioni introdotte nel secolo scorso, portarono, naturalmente, la necessità di distinguere l'u gallico con un segno, e perciò il Piaggio, seguito dai più, prese ad apporvi l'accento circonflesso (û). In quanto all'o turbato, fu già rappresentato in varii modi: oi, uoe, œu, e solo nel secolo scorso col dittongo francese êu. Altri però vorrebbe adottare il metodo glottologico germanico, che conservando le lettere radicali, le distingue colla dieresi ö, ü. Considerato, però, che di questo segno abbisogniamo per marcare le vocali sostenute protoniche e postoniche, non pare conveniente privarsi di questo sussidio prima di averne un altro alla mano. Per tanto continueremo a giovarci dell'u col circonflesso pel suono gallico, e in quanto all'o turbato, rigettando il dittongo êu, che fa sparire la lettera radicale, sarà facile ritornare alla grafia antica, ma simplificata, bastandoci il dittongo œ, già usato dall'Olivieri, ammesso pure dall'ortografia germanica.
Passiamo ora all'accentatura, che richiede maggiore studio. - La nostra lingua, nella prosodia, differisce assai dalla toscana. Questa è gelosa delle sue sfumature di pronunzia, e principalmente del rafforzamento e attenuazione delle consonanti. Il genovese, benché abbia esso pure i suoi rafforzamenti, è delicato al sommo rispetto alla quantità delle vocali. Pertanto, non solo abbiamo da accentare le sdrucciole e le tronche, e distinguere le e e le o aperte dalle strette, come basterebbe all'italiano; ma altresì abbiamo da marcare con speciali segni le vocali lunghe, sostenute come una nota di musica, e che non solo si trovano sotto l'accento tonico, ma anche prima e (meno sensibili) dopo; onde una stessa parola può avere due pause.
Non sarà inutile avvertire che spesso le vocali si allungano per la legge del
compenso, e spesso ancora rappresentano un antico dittongo raccolto nella pronunzia
urbana, ma che ancora si sente intero o in Riviera o nel contado, quali sono i dittonghi
œ, ê, ey, ay, ie, e, più antico, oi, per es.
Ancora, le molte sincopi, apocopi e sineresi onde facciamo uso, riducono spesso a un suono simile o identico vocaboli molto diversi. Qui adunque conviene che l'accentatura si ponga al servizio della grammatica e della logica, per precisare il senso.
A siffatte bisogne giovano i soliti accenti: acuto, grave, circonflesso, con la dieresi e l'apostrofo.
Per le vocali e, o aperte o chiuse, come per le sdrucciole e le tronche giovano
le stesse regole, cui si conformano i moderni lessicografi italiani; cioè:
Le piane non abbisognano di accento, se dette vocali sono strette.
Si accentano le sdrucciole e le tronche, usandosi l'accento acuto. per le vocali é,
ó strette e per l'u italiano: péstilo, bústica, perché, cóntilo. (Per
l'a, e per l'i è indifferente l'acuto o il grave).
L'accento grave distingue le vocali è, ò aperte, e non si omette mai (fèsta, ògni, vòrtlte, tè, tèrmine, hò, ò:= aut) e giova pure per le medesime sostenute, come si dirà. Il medesimo serve altresì per l'ù gallico nelle tronchè: ciù, zù ecc.; e nelle sdrucciole (ùrtimo, fùria) e non disdice nel monosillabo ùn.
Per maggiore chiarezza si accentano le parole che terminano in n o con due vocali, anche se piane: pìggian, cùran, curriàn, ballón, pìggio, légio, condùe, magìa, finìo, monèa, façéa, diäo. I monosillabi non abbisognano di accento, salvo il caso di anfibologia, se nol richiede qualche vocale sostenuta o aperta.
In italiano l'è e l'ò apèrte si trovano costantemente sotto l'accento tonico. Così in genovese, se non che noi abbiamo pure molti o iniziali aperte: queste, se sostenute, si marcano, altrimenti no, per non confondere con due accenti; per es.: onèsto, ortoàn, orrô. L'uso insegna a distinguerli.
Le vocali sostenute, per regola, ricevono l'accento circonflesso quando sono sotto l'accento tonico: piggiâ, altrimenti si segnano colla dieresi: e questa pure si mette sulle parole piane sostenute: pëtenâ, pämia, öfœggio, afïâ, ätro.
Ma siccome l'o e l'e sostenute possono essere aperte o chiuse, occorrono
regole speciali per evitar la confusione (mantenuta anche dal Casaccia). Quindi:
L'accento circonflesso segna le vocali ê, ô strette e
sostenute sotto l'accento tonico: çê, sô, amô, môro; pêtene, côrte.
L'è aperta e sostenuta generalmente è rappresentata dal dittongo æ; anzi molti così la rappresentano anche dove il dittongo non ha ragione di esserci; ma siccome queste parole sono poche, si possono segnare con l'accento grave, tanto più che son lunghe per legge di posizione, come si dirà: tèra, sèra, èra (erra), abèra, guèra (o guæra da war), sèa (seta e setola), fèro e composti, mèximo, sèximo, battèimo; nelle finali si aggiunga un apostrofo: sè' (sete), rè' (reti), trè' femminile di tre.
L'o sostenuta e aperta si distingue parimente col solo accento grave nelle sdrucciole: imbòsilo; altrimenti colla dieresi: cösa, pösa, andiö.
La regola di posizione che allunga le vocali è questa: Sono sostenute le vocali sotto l'accento tonico in sillaba aperta, seguite da consonante scempia; p. es.: pata, peto, fito, ato, ûzo, bûro, puso, sèximo, tèra.
N.B. L'x quando non è radicale, ma segno del noto suono (che potrebbesi rappresentare altrimenti) si considera consonante semplice nelle piane: dexe, caxa, taxo, bûxo; ma è radicale in éxile, éxito, examme, ìxe ecc., e qui la vocale non si strascica, come nemmeno nelle sdrucciole, secondo la regola generale; es,: vixita, rexega. Viceversa di rado sono sostenute davanti a sce, sci, anche provenienti da si, ssi, csi; e in tal caso si segnano: ca(l)sci, du(l)sci, bäscio, diësci, riësce. - Rare pure davanti al nesso gn; inzëgno, ägno, tëgno, vëgne e composti; in ragno è libero; nelle altre voci le vocali sono vibrate come in toscano: ségno, légno, agnéllo, régno, bezœgna. - L'r rende sostenute le vocali che lo precedono, anche nelle sillabe chiuse: vèrso, òrto, guèrço, vèrme, scórpena; quindi, come s'è accennato, basta segnarle con l'accento grave trattandosi dell'e e dell'o aperte; coll'acuto sull'u italiano nelle sdrucciole (rariss.). Spesso, nonostante la regola del dittongo mobile, l'e si mantiene aperto (non sostenuto) davanti all'r: avertença, avertùa, verdexin, erçilia ecc.; ma per non confondere non si segna. - Questa regola dispenserebbe dall'accentare le piane sostenute; tuttavia la dieresi, anche se soverchia, qui giova all'intelligenza, distinguendo le vocali allungate in compenso delle consonanti o sillabe cadute; pü(l)so, cösa (caussa), pë(c)to, pä(l)ta, sä(l)dâ, sô(l)do, töa (tabula), ä(l)tro, mëzo (médio), äze (asino) ecc. Perciò s'è abbondato di questi segni nelle prime due cantiche.
Per distinguere i participii femminili e i nomi dagli infiniti della prima e terza Coniugazione, si riserva a questi l'accento circonflesso sulle vocali a, i finali: fâ(re), dî(re), amâ(re), currî, tegnî. Si ritiene il circonflesso sul monosillabo mâ(re) per distinguerlo da mä(le). La seconda coniugazione essendo piana per sineresi, non ne abbisogna, tuttavia si segnerà con l'accento richiesto dal suono della vocale per distinguere l'infinito dalla terza persona singolare del presente: témme, léze, védde, crésce. Per le altre desinenze verbali tronche sostenute in a, o, i, si adopera la dieresi: amä(ta), piggiä(ta); amïä (mirerà, mirata), dïä (dirà), fö (farò), dï(te), dormï(te).
Ai nomi, per distinguerli dagli infiniti e dai participii, si aggiunge alla dieresi l'apostrofo ove ha avuto luogo un'apocope: bancä'(ta), fï'(lo), doï' (dolori), barchï'(le); lü'(po), dïä' (ditale), mortä'(le), scä'(la). A dir il vero per questo servizio basterebbe il semplice apostrofo, pure vi si può accoppiare la dieresi per maggior chiarezza. (Il Casaccia usa il circonflesso senza distinzione). L'apostrofo giova pure per distinguere i nomi in òw' (da -atorem): conservòw' (conservatore), dai participii maschili omofoni: conservòw (conservato); sansarvòw', sûnòw', scciappòw' ecc. Pei monosillabi apocopati tä(le), quä(le), pö(co) basta la dièresi.
Riteniamo il circonflesso per i nomi tronchi in ê, ô col suono stretto sostenuto: mestê, amô, lô (loro), candê, per evitare novità; ma anche qui basterebbe il semplice apostrofo: amo', pe' ecc. Questo ê sta per l'antico dittongo ie'.
Vogliono l'accento circonflesso i pronomi â, ê, î, ô perché sono sostenuti: â veddo, î vœggio, ê ciammo, ô sento. Talvolta, giova alla chiarezza segnare così anche gli articoli, per distinguere l'oggetto dal soggetto, il che avviene di rado e nelle costruzioni, inverse.
La dieresi usata come segno ortografico, non sempre si ha da prendere come segno di prosodia opposto alla sineresi.
N.B. Col metodo che riserva all's il solo suono sordo, è superfluo avvertire che dopo una vocale sostenuta l's non si può raddolcire; e inutili sono le regole, del resto poco stabili, per distinguere i due suoni di questa sibilante.
La lineetta serve per unire ai verbi i pronomi abbreviati per aferesi: digghe-o per digghelo; ed anche per unire le preposizioni articolate, al che, per altro, giova ugualmente l'apostrofo: cu-o o cu'o = col, omofono di cô = colore; pe'a o pe-a = per la, omofono di peä = pelata; pe-i, pe'i = per i, omofono di pey = pelo.
N .B. Per capacitarsi della convenienza e utilità di queste regole, si dia un'occhiata alla tavola delle principali omofonie genovesi.
Resta a dire delle consonanti doppie, che altri vorrebbe abolire come inutili, appunto come pel castigliano fu stabilito dall'Accademmia Spagnuola.
È certo che il rafforzamento delle consonanti genovesi non è, e tanto meno ora, come il toscano. Un certo rafforzamento c'era, e più sensibile nella pronunzia dei nostri vecchi, che ne avevano pure uno enfatico, o passionale, diremmo, che ancora, benché più di rado, si fa sentire. Comunque sia, se le consonanti doppie si possono diradare, molte sono da conservarsi, perché realmente sussistono: Rico, ato, leze, caze, eco non sono ricco, atto, lezze, cazze, ecco. Dopo le vocali sostenute le consonanti sono sempre attenuate; ma dopo l'accento, nelle sdrucciole, sono rafforzate: pòppulo, tìppico, çéllebre, quand'anche ortograficamente non se ne tenga conto; e viceversa si pronunziano attenuate se precedono l'accento: come in çitæ, atastâ, afare, ocüre, alontanâ, colêgio, attilòw, per quanto si possano scrivere raddoppiate.
Notisi altresi che vige anche nel genovese la regola dell'accento mobile, per cui, questo trasferito, la vocale aperta diventa chiusa, e il dittongo scompare.
Le eccezioni dell'ò iniziale, dell'è davanti all'r, e delle sostenute per compenso, si sono accennate a suo luogo. Quindi da tèra, terèstre; çê, çelèste; òmmo, ûmano; vittòja, vittoriozo; scròllo, scrollâ; bèllo, belleçça, ecc.; ma apægiâ per appareggiâ in compenso dell'r. L'œ turbato si cambia quando in ô, e quando in û; xœo, xûâ, xoâ; ingœgge, ingûggeyto; cœ, cordiale; mœa, amoâ; mœe, moî; atrœvo, atrovòw; fœgo, affogòw; asmœggia, asmûggia ecc. Rarissime le eccezioni: œbbrigâ, œggezzâ, che prendono anche l'o. Perciò se i dittonghi œ, æ non abbisognano di accento, quando si conservano protonici si segna la sillaba tonica.
Vi sarebbero alcune sfumature di pronunzia che sfuggono alle leggi ortografiche, e queste si lasciano alla pratica. Solo accenneremo alcuni cambiamenti di lettere o contrazioni o dittongazioni del parlare corrente, di cui non sempre si cura l'ortografia, quali sarebbero:
Terminiamo con qualche avvertenza sulla versifìcazione.
1. È noto che, quantunque sieno inevitabili in poesia la sineresi e la dialisi è però da sfuggirne l'abuso; perché se lo spesseggiare de]la prima inasprisce il verso, la seconda lo rende rotto e languido; il che, ove l'armonia imitativa, o altre ragioni, non lo consiglino, è da evitare. I nostri poeti antichi usarono a larga mano della diàlysi - forse un po' troppo - ma si sente che non fa difetto, sia per l'indole della parlata nostra vocalizzante per eccellenza, sia per la convenienza di far sentire le vocali sostenute per compenso; le quali a dir vero erano in minor numero nella lingua aristocratica e letteraria, allora amante della forma integra, del rotacismo, e di altre speciali epentesi. (Giuliano Rossi (e forse altri) occorrendogli, non tenea conto dell'n finale, e cosi per ectlipsi otteneva la sinalefe). Anche i Greci, che meno dei Latini erano sensibili alla durezza dell'iato, nondimeno usarono, all'uopo, delle figure che lo tolgono; e in ciò s'è dovuto imitarli non di rado in questo lavoro. Dovendo una siffatta versione mantenersi fedele all'originale, seguirlo terzina per terzina, e, possibilmente, verso per verso, talora non si è potuto far a meno di inzeppare, sia per la materia sovrabbondante, sia per non mancare alla precisione scientifica, sia per la dura necessità di cambiar il modo o il tempo del verbo, essendoci stato tolto il passato remoto, Con tutto ciò s'è procurato di non abusare.
2. I canti in terza rima richiedono una gran varietà di consonanza, talché in italiano appena vi si tollera la ripetizione della stessa un paio di volte, e a una certa distanza. L'Alighieri soltanto in dieci canti ricorre a tale ripetizione, cioè: Inf. II ale; XXIV ezza; XXXIII ia; Purg. IX ata, esta; XX anto; Par. IV ura; VII ita; XVIII idi; XXXII ante. In genovese, ove non si ricorra alla forma reintegrata, cara agli antichi, la difficoltà è maggiore per le frequenti apocopi e sineresi, che spesso riducono diverse desinenze a una stessa vocale sostenuta. Con tutto ciò vedrà il lettore, che anche in questo, il genovese si vantaggia sui dialetti dell'Alta Italia, confrontando questa versione con la Veneziana e con le altre. Qui però occorre rammentare che il nostro idioma, appunto per la sua precisa e delicata vocalizzazione, distingue nella rima le vocali secondo la quantità, cosicché rimano a parte le tronche (fà, dì, fò), e a parte le sostenute (fâ dî, fô), e fra queste poi le aperte non si accomunano con le chiuse, come si vede nel noto sonetto del Cavalli sulla lingua genovese: Çento poœra de bœ tûtti azzuvæ - No duggeràn ra lenga a ûn forestê, in cui seguitan alternate queste due varianti dell'e: insuccaræ, tæ, feliçitæ, e Çê, Bertomê, amê. Tuttavia in principio di sillaba e in posizione l'e, sia larga o stretta, consuona, badandosi allora piuttosto alla quantità per es.: cëa, cæa; quello, bèllo; vêgio, pægio, sèa, s'ëa; cristianëximo, sèximo ecc. (Gli antichi abbreviavano pure questa desinenza in ezmo: mèzmo, sèzmo e così ciûzma per ciûxima, orde per ordine ecc.).
3. C'è poi una rima falsa che nessun orecchio, e tanto meno il genovese, può accettare, per quanto, talora, l'abbiano usata (a scanso di fatica?) i Traduttori della Gerusalemme, imitati dai moderni; ed è quella dell'o aperto con l'o chiuso, il quale essendo per noi un vero u toscano, parecchi hanno già proposto di bandirlo, e se si conserva ancora, è in grazia dell'etimologia. - Né vale l'esempio dell'italiano, perché ogni lingua ha sua perfezione e suo suono; e se in italiano l'o ha realmente due suoni diversi sì, ma affini, in genovese come in latino e nelle altre lingue romanze non ha che il suono aperto. Non si nega che una specie di o chiuso si percepisca nei nostri dittonghi oâ, oï, oæ (demoä depoï, paæ), ma questo rimane estraneo alla rima trovandosi per lo più in parole tronche, oppure pretonico, come in oétta, poaçça. Questo, del resto, è tanto fuori di discussione, che quelli, fra noi, che non ci fanno uno studio speciale, parlando italiano, all'o chiuso sostituiscono l'aperto (difetto dei moderni) ovvero un bell'u toscano (difetto degli antichi). E questo fia suggèl... Dunque come in italiano nessuno fa rimare bucce con bòcce, muro e mòro, uso e òso, turo e tòro; come un francese non fa consonare court, fou con mort, faux; né uno spagnolo crudas con bodas, burbuja con floja; nemmeno un genovese (se non gli si vuol attribuire un orecchio diversamente conformato...) può percepire, non dirò una consonanza, ma neppur una assonanza fra güa e tòa, turno e còrno, püso (polso) e pöso, cüro e còro; lu' e l'hò, cô e in-cò, ciöso e arescôzo, cösa e tüza (verbo tozâ), mòrte e côrte, còsta e côsta, Nòli e sôli, stròscia e frúscia, Giòxe e cruxe, impösto e agusto (mese) ecc.
Del resto si vede che gli stessi traduttori della Gerusal. tenevano questi suoni per ben distinti, perché all'uopo come tali li alternavano, come p. es. nell'ottava 73 del c. XVIII, fece il Gallino; rimando sò, oibò, se pò, e a parte lô, lavô, önô.
Piuttosto è da trarre profitto dalla ragionevole libertà (trascurata dai moderni), ma di cui si valsero gli antichi che facevano consonare le sibilanti palatizzate sce, xe con le rispettive sibilanti s, z; per es.: basso, sàscio; vazo, caxo; cayze, rayxe; Pareyzi, Zeneyxi; sëze, çëxe ecc. Né rima siffatta può tenersi in conto di assonante, più di quella accettata in italiano fra le sibilanti aspre e dolci. Infatti c'è più consonanza fra maççi e sasci, meyze e reyxe che non è in bocca toscana fra òsa e cosa, spòso, amoroso, marchese e accese; e più ancora che non v'è fra la zeta dolce e l'aspra, p. es.: fra mazza e gazza, pozzo e rozzo, stizza e frizza, tozza e rozza, prezzo e rezzo; rima che, per quanto sia biasimata dai grammatici, non di rado si vede usata da buoni scrittori, e qualche volta anche dall'Alighieri.