Intrâ > A léngoa > Proposte di atri in sciâ grafia > Vito Elio Petrucci

Steva De Franchi ] Gian-Giacomo Cavalli ] Olivieri ] Casaccia 1851 ] Paganini ] Bacigalupo ] Casaccia 1876 ] Gazzo ] Gazzo - Chiave ortografica ] Gazzo - Voci omofone ] Gazzo - Spiegazioni di parole ] V. D. M. ] Gismondi 1955 ] Gismondi 1949-1974 ] Schmuckher ] De André ] Petrucci ] Costa ] De Carlo ] C. P. P. ] a parma ] Toso ] (Toso ?) ] VPL 2-II ] [ VPL ] [ Conrad ]

Vito Elio Petrucci
Grammatica sgrammaticata delle lingua genovese
Sagep, Genova, 1984

[vocali] [a] [e] [i] [j] [o] [scelta della o] [u] [y]
[dittonghi] [trittonghi]
[consonanti] [b] [c] [ç] [g] [h] [m] [n] [p] [q] [r] [v] [x] [s,  z]
[scelta tra s e z] [digrammi] [accenti]


[inizio pagina]

Le vocali

Ad un discorso sulle vocali c'è da porre una premessa: che nei dialetti liguri esse sono per loro natura molto variabili, una variabilità costante; possono prendere suoni speciali ed anche sciogliersi in dittonghi. Così la a può piegare alla e ed alla o; la e, oltre i due suoni che ha in italiano, può mutare in i ed ei o la si può trovare preceduta da una i in una lunga serie di parole, come si può ascoltare a Rondanina dove vegni diventa viegni, nevo, nievo; ecc.; la i diventa facilmente u, come in prumma anziché primma, e viceversa; per tacere del rafforzamento e della dittongazione che si verificano con lo spostamento dell'accento tonico tipo: beive, bere; bevùo, bevuto. Per le vocali liguri la grafia finisce per essere una struttura, il tentativo di stabilire un punto di riferimento tra i mutevoli valori.

Le vocali in Liguria corrispondono a sei segni grafici: a, e, i, j, o, u e potrebbero diventare otto sommando i due dittonghi ae ed eu; contando invece i suoni più frequenti e stabilizzati, il numero aumenta ad undici per una doppia e, una doppia o, una doppia u. E cioè:

Vi sono inoltre nei vari dialetti della Liguria vocali che hanno suoni particolarissimi che sfuggono alle normali classificazioni. Un esempio può essere la a di Oneglia che sta tra la a e la o; nel Dionisi-Carli è rappresentata con il dittongo ôa in corsivo mentre il Lucetto Ramella usa una â con l'accento circonflesso. Madre: môai, mâi; spegnere: smurtâ, masticare: giasciôa.

[inizio pagina]

A

Ha il suono sempre aperto identico alla a italiana: casa, casa; strada, stradda. Con l'accento grave, che caratterizza la parola tronca italiana è presente in un numero limitato di casi (in genere parole italiane o straniere) baccalà, merluzzo; sofà, sofà; chissà; , casa, nella versione tronca dei dialetto rurale.

Il dileguo di consonanti o la troncatura conseguente ad apocope, danno luogo ad un suono della vocale molto più allungato (quasi raddoppiato), fenomeno che graficamente viene evidenziato con l'accento circonflesso in posizione terminale e con la dieresi nel corpo della parola (V. accenti):

La a se lunga e accentata ha in alcune località la tendenza a velarizzarsi arrivando in certi casi fino alla o. Il noto comico Giuseppe Marzari soleva raccontare questo fenomeno fonetico come un aneddoto:

Mi no ghe capiscio ninte. Monto in scio tranvai a Caregamento e me dixan: «Bon giorno scio Marzari! Chinn-o a Sestri e me dixan: «Bon giorno scio Marzori!

Un'altra particolarità della a atona in alcune forme verbali ed in zone rurali è quella di diventare e; o parle, parla, invece di o parla.

[inizio pagina]

E

È la più mutevole vocale della parlata. Normalmente in genovese si pronuncia stretta: çeddro, cedro; testo, teglia; fen, fieno. Non è stato possibile individuare una regola che consenta la definizione della e aperta, lo è costantemente quando precede la erre seguita da altra consonante: èrba, erba; pèrsa, maggiorana; ma con altre consonanti ha andamento irregolare, per cui sarebbe consigliabile l’uso dell'accento grave: lètto, aver letto; affètto, affetto; sésta, sesta.

Ha comportamento simile a quello della a per il suono allungato:

Non esistono in genovese parole che abbiano la e finale accentata; i pochi casi segnalabili riguardano termini non genovesi: caffè. Anche la é della terza persona singolare del verbo essere, pur essendo accentata, resta muta, lê o l’é.

Tra i suoni della e esiste una e larghissima, di cui tratteremo avanti, in quanto, pur essendo un suono autonomo, viene graficamente segnato con il dittongo improprio ae.

La vocale e ha la tendenza a mutare, da individuo a individuo, da località a località, in i, fenomeno conosciuto come lo iotacismo. Recenti studi hanno potuto appurare che questa mutabilità (propria della lingua greca) è già presente nella grafia dell'Anonimo, il poeta del XIII secolo. Jean Nicolas scrive in proposito: «Le molte esitazioni del copista tra la e e la i indicano similmente che la e stretta quasi sempre si confondeva con la i. Così al singolare come al plurale la parola «frate» viene scritta ora frae, ora frai. Il suffisso avverbiale mente viene scritto ora mente, ora menti ora minti. Aere alterna con ayre. Il passato del verbo dire, cioè disse, rima con il congiuntivo passato di stare, scritto staesse».

La doppia forma del suffisso avverbiale mente, già presente nel duecento la ritroveremo viva nella parlata trattando degli avverbi.

[inizio pagina]

I

La i è una vocale che ha sempre suono chiuso. Si sostituisce modernamente alle e ed alla u in parlate rurali; nel capoluogo la sostituzione è generalizzata abbastanza nell'articolo indeterminativo un pronunciato in. È presente per dare suono non gutturale alle consonanti c e g ed ai gruppi sc e gl, con una tendenza recente a metterlo in evidenza graficamente, per esempio anche con la x, per facilitarne la lettura: xiatta anziché xatta.

In qualche caso, per esempio prumma per primma, è registrabile il processo inverso.

Anche per la i abbiamo la presenza degli accenti:

[inizio pagina]

J

La j nel genovese ha perduto completamente il suono tipico della lingua francese (assunto dalla x) per ricuperare quel ruolo semiconsonantico che aveva in passato nella lingua italiana per indicare, non una maggior lunghezza e neppure il raddoppio (come in certi plurali), ma un rafforzamento della vocale; come la sola presenza dell'accento tonico. Non è mai lettera iniziale e non sopporta accenti.

Primmaveja, primavera; tettajeua, poppatoio; sguajou, sguaiato.

[inizio pagina]

O

La o ha in genovese due pronunzie: aperta e chiusa. La prima corrisponde esattamente alla o italiana, la seconda (sempre in fine di parola non accentata) alla u, con un suono cangiante nei vari dialetti liguri, da parola a parola, tra una o di Imperia e La Spezia e la u di Genova, Savona ed altre località, passando anche attraverso il suono eu.

Si deve però affermare che in entrambi i casi la vocale risulta sempre graficamente rappresentata dalla o, per una ragione etimologica che, nonostante lo stringersi della pronuncia fino ad arrivare ad una chiara u italiana, impone alla vocale il valore grafico della o.

In sillaba tonica i due suoni possono essere distinti con l'accento grave o acuto. Gli altri accenti indicano le mutazioni comuni delle vocali nel genovese:

In relazione a questo doppio modo di pronunciare la vocale senza segni che ne permettano l’individuazione, sorgono ovviamente dei problemi nello scrivere: è detta ora o ora u, e va scritta sempre o, ma con riserva, avendo nell'alfabeto anche la u italiana con identico suono.

Nel tentativo di facilitare di lettura De Franchi, Casaccia e Gismondi hanno proposto di segnare con accento o con trattino orizzontale questa o aperta. La scelta della grafia moderna è quella di rifarsi alla proposta cinquecentesca del Foglietta lasciando la precisa individuazione dei due valori alla conoscenza del linguaggio, esattamente come avviene per l'italiano che non distingue graficamente i due suoni, anche se conservare detto accento non è errore.

Il Gazzo ha il merito di una osservazione che è opportuno ricordare: «L'o chiuso è tanto diverso dall'italiano che ben si potrebbe, scrivendo, sostituire l'u come si fa pronunciando e con ciò non ci sarebbe più bisogno di dettare regole per distinguerlo dall'altro. Così vorrebbe e fanno alcuni (come Olivieri, Randaccio e altri) prendendo l'esempio dagli scrittori dialettali dell'Italia meridionale. Tuttavia, senza riprovare questa opinione, anzi valendocene qualche volta per maggior chiarezza (...) preferiamo ancora rispettare la etimologia latina, scostandoci quando occorra dall'italiano avendo il genovese vita propria».

Una prova eccezionale della continuità e dell'impegno con cui l'area ligure ha sempre scritto la o chiusa, corrispondente ai suono u, l'abbiamo in una recente pubblicazione di Nilo Calvini.

A pagina 17 è pubblicato un disegno a penna della Rocca di Pietra con annotazioni scritte in italiano Tra le varie parole possiamo leggere: longeza e congionto dove è scritta o, per abitudine, anche la u di lunghezza e congiunto anche in italiano.

[inizio pagina]

Procedimento empirico per la scelta della o

La stessa difficoltà' trovata nella lettura e quindi nella pronuncia della o, cioè se scegliere il suono aperto o il suono chiuso, si riscontra al momento in cui si deve scrivere in genovese.

In questo caso la confusione nasce non nell'ambito della vocale o ma coinvolge anche la u italiana presente nel genovese (e di cui parleremo).

Quando, parlando, la pronuncia è o, non resta che scrivere o; siamo davanti ad una vocale o aperta; ma quando la vocale è u occorre distinguere se è la u della o chiusa che abbiamo già visto (Mario, con, gosso) oppure se è effettivamente una u italiana come in zunta, giunta; scuccuzù, gragnola; cubbia, coppia.

Vale per la scrittura quello che è stato già detto e cioè che ausilio può essere la conoscenza del dialetto e del modo di scriverlo. Ma esiste anche un modo empirico per controllare la scelta delle vocali da scrivere.

Se si deve scrivere una parola nella quale è presente il suono della u si può guardare la grafia della corrispondente parola italiana (quindi di comune derivazione latina). Per esempio se la parola è porto, che in genovese si pronuncia portu, ecco che abbiamo la conferma che la u corrisponde ad una o, perché in italiano è porto; se la parola è punto, pronunciata puntu, abbiamo la conferma che la prima vocale è u e la seconda o.

[inizio pagina]

U

Anche la vocale u, che è sempre chiusa, ha due pronunzie: una identica alla u toscana: burridda, pesce in guazzetto; ed un'altra, molto più chiusa, identica all’u francese, come in umô, umore. Ferdinando Durand, in uno studio sugli influssi greci nel dialetto ligure dice in merito: «Ed è pur significativo in tutto il dialetto ligure il tanto insistere nell'uso dell'u, che è ignoto al provenzale e che risulta da noi ancor più comune che nel francese, cosa che nuovamente riporta al modo di esprimersi dei greci e delle loro cadenze particolari».

Anche per la u non esiste una regola. La scelta è solo in funzione della conoscenza del linguaggio. La grafia genovese corrente ha sempre segnato la u francese con l'accento circonflesso û, la grafia fonetica lo segna con la dieresi ü; la tendenza moderna alla semplificazione (trattando il genovese come lingua) ha abolito ogni accento: il senso del discorso consentirà la giusta scelta. Usare l'accento circonflesso, non è comunque un errore.

[inizio pagina]

Y

Un pensiero può essere rivolto con malinconia alla y, o i greca, che il latino non ha voluto e che così il genovese non si è ritrovato; ci avrebbe aiutato nella individuazione dei suono della u, detta alla francese. Infatti è chiamati i greca perché «in antico era proprio di questa lingua», dove rappresentava quel suono Intermedio fra i e u che, sconosciuto all'italiano, si ritrova però in alcune lingue moderne (con l’u francese, l’ü tedesco, ecc.) e in parecchi dialetti dell'Italia nord-occidentale. È greco del resto lo stesso nome di ipsilon che significa proprio «u piana» «u attenuata».

[inizio pagina]

Dittonghi e bivocali

Di dittonghi in genovese se ne sono occupati un po' tutti con definizioni più o meno accettabili.

Il Casaccia ha proposto la loro suddivisione in propri ed impropri: propri quelli comuni della lingua italiana, impropri quelli nati dall'accoppiamento soltanto grafico di due consonanti al quale corrisponde un unico suono e che quindi in realtà non sarebbero neppure un dittongo.

Se accettiamo per buona questa definizione di dittongo improprio, possiamo dire che sono tre: ae, eu e òu.

Per quanto concerne la forma grafica dei due dittonghi impropri ae ed eu, occorre ricordare che nelle opere manoscritte sono sempre stati raccolti sotto un unico ampio segno a capanna (non un accento) proprio per volerne individuare la improprietà come dittongo.

Quest'uso è stato seguito poi da qualche scrittore diligente anche nei testi a stampa, con ultimo e prezioso esempio quello di Edoardo Firpo.

Con il passaggio dalla scrittura a mano alla stampa si è cercato di mantenere il segno riducendolo praticamente ad un accento circonflesso, messo sulla prima o sulla seconda vocale se lo scrittore aveva o meno reminiscenze greche. Questa soluzione è errata perché modernamente l'accento ha la funzione di dividere e non di unire i suoni. Entrambi i dittonghi vanno perciò scritti senza accenti. Nel latino e nel francese, lingue nelle quali sono largamente usati con la stessa pronuncia il comportamento è identico. La presenza di un accento invece starà ad indicare che le due vocali vanno lette disgiuntamente: può servire all'occorrenza anche l'accento tonico.

Particolare è il comportamento dei dittonghi ae ed eu quando sono preceduti dalle consonanti c e g. Eu non offre problemi perché, pur avendo un suono molto più vicino alla o che non alla e, ha come prima vocale la e ed assume automaticamente la h: cheu, cuore; lagheu, ramarro.

Più complesso è il discorso su ae, dove la prima vocale rifiuta per la regola italiana, la acca.

Il Casaccia ha risolto il problema considerando i due dittonghi come vocali, entrambi variazioni tonali della e, con eventuale aggiunta della i quando le due consonanti sono dolci per semplificare la lettura. Una i che compare sempre più frequentemente anche con altre consonanti, xiatta, scodella, per esempio, per evidenziarla meglio anche se già compresa nel suono della consonante. Quindi avremo ciaeto, pettegolezzo, giaee, bietole. Il Gazzo vede dittonghi e bivocali in funzione del nesso che vi è tra le vocali. Per il dittongo si rifà all'italiano evidenziando solo i dittonghi «rapidi» òu, ei, ai, che formano una sola sillaba.

Divide invece in raccolte e distese le bivocali, cioè gli accoppiamenti che non danno luogo a dittongo.

Sono bivocali distese quelle nelle quali le vocali mantengono intatto il loro suono: viöla, viola; spïa, viägio, viaggio. Sono raccolte quelle nelle quali c'è un accorpamento senza l'unificazione della sillaba: ciaga, piaga; nuvea, nuvola; grigoa, lucertola, ceiga, piega.

È ancora sua l'osservazione che I dialetti della Riviera abbondano di dittonghi distesi mentre quello del capoluogo predilige quelli raccolti. Completa l'osservazione del Gazzo una dichiarazione del Plomteux: «Contrariamente a quanto è successo nel genovesato, certe vocali in iato, venute in contatto a seguito alla caduta di consonanti intervocaliche, non si sono contratte in Val Graveglia dove avremo aeo, ariete; figaéto, fegato; leccaéso (contratte in genovese); scain, scalino; aìn-a, arena; cardaìn, cardellino.

[inizio pagina]

Trittonghi

La facilità con la quale il genovese ha abbandonato sul suo cammino consonanti deboli, ha fatto sì che abbondi di trittonghi e quadrittonghi ed anche di gruppi maggiori di vocali. Soaieu, soppalco, e vujeue xuatinn-e, varicella, vocali allineate ne mostrano cinque, mentre eujòu, oliato, è parola di cinque vocali senza consonanti. Laouejo, laboratorio, e aquila pesciaieua, aquila pescatrice, allungano la sequenza a sei. La nostra aquila pescatrice in qualche località rurale si carica ancora di una j diventando pesciaieuja, con il conto record delle vocali portato a sette.

Una curiosità ortografica è rappresentata da tre parole: zapparla, salarla e vararla che nella pronuncia popolare, quella che d'istinto applica la regola del dileguo e dell'apocope, sono ridotte rispettiva mente a: caàa, saàa e vaàa. Non un trittongo ma l'eccezionale presenza di tre a In fila, senza sostegno di consonanti.

[inizio pagina]

Le consonanti

Consonanti sono le lettere che non hanno suono e che pertanto debbono accoppiarsi con una vocale.

Le consonanti del nostro linguaggio sono diciotto e si comportano come in italiano, senza costituire problemi.

B, C, Ç, D, F, G, H, L, M, N, P, Q, R, S, T, V, X, Z.

[inizio pagina]

B

La regola italiana la vuole anche in genovese preceduta sempre dalla lettera m, anche se in genovese il suono è sempre chiaramente n: inbarasso; cönbo (colombo).

[inizio pagina]

C

Davanti alle vocali e, i ed ai dittonghi impropri ae ed eu, ha suono dolce: ceive, pieve; ciodo, chiodo; prende il suono duro in presenza della h: cheu, cuore; chinze, quindici.

Ha suono naturalmente duro davanti alle vocali a, o, u e u francese.

[inizio pagina]

Ç

Si può trovare solo preposta alle vocali e ed i. È una lettera caratteristica ed insostituibile delle parlate liguri in quanto sta ad indicare la mutazione etimologica del suono dal ce e ci latino, mentre l'italiano ha conservato il suono della c. È importante perché nel caos generato dal difficile uso delle esse e delle zeta (complicato in qualche caso anche dalla x e dal digramma sc), evidenzia con precisione un gruppo di parole che hanno la esse dolce e consente di chiarire qualche omofono, come seja, sera; çeja, cera.

Modernamente viene sostituita dalle due esse quando è doppia. L'ultimo che ha sostenuto di scrivere braçço per braccio è stato Gherardo del Colle. Questa confusione era già stata segnalata da Giuseppe Cava (Peppin da Ca) nella prefazione del suo In to remoin. Sono stonature abbraççâ, a braççetto, braçço, braççe; occorre sempre la presenza di sillabe con le vocali e ed i e la consonante scempia.

[inizio pagina]

G

La lettera g ha analogo comportamento della c, con suono dolce o duro in relazione alla vocale che segue.

[inizio pagina]

H

La h è usata molto poco, praticamente solo nella declinazione del verbo avere, limitatamente a qualche persona, nel gruppi ch e gh e nelle esclamazioni. Nel vocabolario sanremasco la lettera h manca perciò nessuna parola comincia con h.

[inizio pagina]

M

Per la emme c'è da segnalare in qualche parlata locale la sua sostituzione con la b; un caso abbastanza tipico è mananne al posto di bananne (voce popolaresca).

[inizio pagina]

N

Assume pronuncia nasale e tronca nelle apocopate. Come visto, il suono della n subisce una violenza grammaticale quando si presenta davanti alle consonanti b e p. Secondo la regola italiana la b e la p possono essere precedute solo dalla m. Questo è un dubbio che gli antichi ed alcuni dialetti della riviera non si sono posti: quando il suono è n, la grafia resta n. Come consolazione si può notare che anche nella pronuncia italiana il suono è spesso più vicino alla enne che alla emme come obbligatoriamente si deve scrivere.

La enne finale in parole come son, con, quando si trova a contatto con vocali cade: me so’ accorto per me son accorto; co-a per con a. È l'unica consonante che possiamo trovare finale in parole tronche: pan, pane; vin, vino; pin, ripieno.

[inizio pagina]

P

Come la b, segue la regola italiana che la vuole preceduta sempre dalla consonante m.

[inizio pagina]

Q

Anche in genovese raddoppia pigliando a prestito la c, nel vocabolario sanremasco manca completamente perché viene pronunciata alla francese con il ch: chiete per quiete; careiximaper quaresima e christion per questione.

[inizio pagina]

R

Consonante molto debole, si potrebbe dire evanescente, è una protagonista delle vicende dei dialetti liguri.

[inizio pagina]

V

Si mostra come una consonante debole soggetta a dileguo; è praticamente sempre presente solo nel linguaggio letterario e nel dialetti moderni. L'area rurale trancia sistematicamente tutte le v iniziali dandoci gli esempi che seguono vento, ento; vestî, estî; vurpe, urpe. Fenomeno in netto regresso.

[inizio pagina]

X

Ha la pronuncia della J francese ed è il definitivo risultato della trasformazione del c originarlo, come la zeta lo è in qualche caso della g.

È già presente, assieme alla ç nel «Testamento di Pictenado» del 1196 e nella «Dichiarazione di Paxia» del 1182.

[inizio pagina]

S e Z

Sono due consonanti che nel genovese, come nell'italiano, non hanno ben definito la loro pronuncia. Hanno entrambe suono dolce e suono aspro, ma non vi sono norme che regolino l'impiego dell'uno o dell'altro suono; non sono neppure definiti con esattezza i confini tra le due consonanti. Solo il Gismondi ha tentato di individuare una omogeneità di comportamento nei due suoni della esse, e li definisce in questo modo: «Primo un suono dolce simile alla zeta: a) quando è in mezzo a due vocali (casa, reusa, füso), v'è anzi chi adopera addirittura la zeta; b) quando è seguita da una delle consonanti b; d; g; m; n; v (asbrio, svista). Secondo, un suono aspro: a) in principio di parola seguita da vocale o da consonante, escluse quelle ora enunciate (sâ, sordo sfigurâ, strano); b) nel corpo della parola preceduto da erre e da enne (mersâ, pansa, guerso) c) quando si trova tra due vocali di cui quella che precede sia accentata (fäso, cösa, ëse); d) nel pronome se, enclitico, dell'infinito dei verbi riflessi (addormîse, lavâse».

Per la zeta dice: «due suoni: dolce nelle parole zèo, zembo, zubbo; l'altro aspro in tutto simile ad una esse aspra (lezion, grazia, ozio). Questa ultima zeta modernamente, da molti autori, è scritta doppia ss, er una esatta rispondenza al suono: grassia, ossio.

Vi è molta indecisione, con una tendenza genovese ad usare la zeta nei suoni dolci e la esse nel suoni aspri, senza tener conto della grafia tradizionale, complicata da mancanza di segni idonei. Il Messina, nella sua grammatica, osservando il problema per quanto concerne l'uso delle esse e delle zeta nella lingua italiana, conclude dicendo che «soltanto la pratica ed una diretta conoscenza della viva parlata toscana possono supplire a questa deficienza dei nostri alfabeti».

Quindi si tratta una questione per la quale non è necessario andare ad arruxentare i panni in Arno, come ha fatto Manzoni.

Sulla zeta c'è da aggiungere che forse nel tempo il suo suono si è addolcito, ha perduto molto della sua spigolosità, tanto che oggi leggendo il giudizio che Dante ha espresso nel De vulgari eloquentia (libro 1, cap. XIII) sulla parlata genovese rimaniamo un po' scettici: «Che se i Genovesi perdessero per smemoratezza la lettera zeta dovrebbero o ammutolire del tutto o rifarsi una parlata novella. È infatti la zeta grandissima parte della loro parlata, e questa lettera appunto non si pronuncia senza molta asprezza».

«Con questo giudizio caricaturale, osserva Jan Nicolas parlando del linguaggio dell'Anonimo di cui Dante era contemporaneo, egli voleva dire che la pronuncia genovese abbondava di z. Ora, alcuni studiosi, che forse non avevano in mente la testimonianza dantesca (il primo «field-work» della storia), si sono interrogati sulla pronuncia di alcune parole: mezzo si diceva mezu o mesu? rugginoso si diceva ruzènento o rusènento?, cacciare si diceva cazar o casar che poi è diventato cacciâ?, e cioè se si diceva zeu o seu?

Il dubbio è sciolto dalla testimonianza di Dante, la quale conferma seppur indirettamente, che si diceva mezu, ruzènento, cazar, zeu».

[inizio pagina]

Procedimento empirico per s e z

Per s, z e ç la situazione è identica a quella già vista per la o. Per le parole che hanno derivazione dall'italiano è possibile empiricamente rifarsi ad esso per sapere quale consonante usare. Eccezioni sono quelle che in italiano hanno in corrispondenza del suono esse una ci (sempre seguita dalle vocali e ed i) perché allora la consonante da usare è la ç come si è già visto. Una conferma circa l'uso della zeta ci viene dalle parole che in latino, come in italiano, hanno consonante corrispondente alla g: zenoggio, ginocchio; Zena, Genova. Particolarità fonetica del ligure che forse ricupera un suono del linguaggio che preesisteva alla romanità.

[inizio pagina]

Digrammi e gruppi consonantici

La presenza di digrammi nel genovese segue le regole dell'italiano con la sola esclusione dei digramma gl, inesistente, e presente solo in qualche parola recente, mal pronunciata.

GL in italiano è usato tanto nella parola meglio, quanto nella parola negligente, nonostante il suono diverso, nel primo il digramma gl e nella seconda g-l con una gi gutturale. Con l'ausilio della grammatica italiana non è possibile avere una guida nella scelta dei due suoni; solo il genovese può aiutare perché, non ricevendo il digramma gl, fa una distinzione tra i due valori consonatici. Trasporta nella sua parlata il digramma con il solo suono della g (semplice e doppia): meglio, mëgio; moglie. moggê; figlio, figgio; aglio, aggio.
Mantiene i due suoni staccati nelle parole del secondo gruppo, di chiara derivazione italiana: glicine, glicine: glicerina, glicerinn-a; anglicano, anglicano; geroglifico, geroglifico.

[inizio pagina]

Gli accenti e altri segni grafici

L'accento, così poco usato nella lingua italiana, ha nel genovese presenza ed importanza notevole sia per la varietà dei suoni delle vocali, sia per gli omonimi frequenti in una lingua in cui contrazioni e dilegui sono stati costanti. Il problema degli accenti è legato alla antiquata tastiera della macchina da scrivere, vincolata ad un impiego strettamente commerciale e fedele documento della trascuratezza dell'italiano in materia. L'accento è un fenomeno orale. Ciò significa che ogni parola ne ha un suo proprio, indipendente dal segno che si ha a disposizione e dagli accenti che può aver posto la persona che scrive.

I segni che nel genovese sono usati come accenti sono cinque: grave, acuto, circonflesso, dieresi o trema e apostrofo.

Normalmente l'eleganza e l'importanza ad un linguaggio sono date dalla presenza del minor numero di segni diacritici (accenti e simili). Una loro puntigliosa presenza, esclusa ovviamente la grafia fonetica nella quale sono unità di misura, normalmente caratterizza i dialetti, le parlate locali. Una lingua o un dialetto scritto che abbia acquistato velleità letterarie li limita a casi dubbi e ad esigenze specifiche.

[inizio pagina]