Le parole del Natale Parola antica è Dênâ per denotare il Natale: viene direttamente dal latino die natale, giorno di natale, o dei natale, nascita di Dio. E, per assonanza, ci ricorda o dinâ da noxe, ovvero quella mancia che si dà, per lo più ai fanciulli, nella solennità del Natale. Di tradizione i maccaroin into bròddo de cappon (pasta lunga e forata, di forma cilindrica, nel brodo di cappone) e il pan doçe (pandolce) su cui si pianta una ramma d’öfeuggio (rametto d’alloro) in attesa che il cappo da famiggia (capofamiglia) finalmente dica: «L’insemmo?» (lo incominciamo?) e tagli il pan doçe. Il giorno seguente è il giorno di San Stêa (Santo Stefano), il giorno di ravieu (ravioli), “la più squisita fra tutte le minestre del mondo” dice il Casaccia ed io concordo, conditi immancabilmente col tocco a-a zeneize (sugo alla genovese), quello con la raxa, la pelle che si forma sul sugo quando cuoce lentamente. Tra sei giorni ci diremo bonn-a fin e megio prinçipio (buona fine e miglior inizio): l’augurio del Cappo d’anno (capodanno). Ancora sei giorni e si festeggia la Pasqueta (Epifania), prima festa dell’anno ma minore o più “piccola” rispetto alla Pasqua, da cui il nome. E sia dunque Epifàgna, gianca lazagna (Epifanìa, bianca lasagna) da condire col nostro stupendo pesto. Tutte e ocaxoin son bonn-e pe parlâ o zeneize. Franco Bampi |