In cucina In genovese la parola cuxinn-a significa sia la cugina, ossia la figlia di un barba (zio) o di una lalla (zia) sia la cucina, il luogo per cheuxe (cuocere) le vivande. Una volta i cibi erano cotti sul ronfò (da taluni detto ronfòu), parola presa dall’americano rumford, un ingombrante fornello in muratura. Per ravvivare il fuoco si usava la banderòlla, una grosso ventaglio (bandeta, in genovese) fatto di piume di bibin (tacchino). Per aver miglior tiraggio si usava o diao, un aggeggio a forma di grosso imbuto (tortaieu, in genovese) da porre sopra il fuoco. Proprio per la presenza del fuoco, le pareti erano spesso sporche di càize (fuliggine, da non confondere con la caligine, blanda nebbia dovuta a pulviscolo o a inquinamento, in genovese caligo). Quando l’umidità delle pareti la scioglie e la fa colare allora si chiama ciugiann-a. La graticola o gratella per la carne è detta grixella, mentre il girarrosto ha il curioso nome di martin e lo spiedo per far ruotare la carne è detto spiddo. Già alla fine del Millecento il mestolo era detto cassa; ed ecco che cassaræa diventa il mestolo bucato o schiumarola. Un altro strumento da cucina ormai in disuso è il brustolin, un cilindro cavo per brustolî o cafè (tostare il caffè), mentre ancora oggi si usa o siaso (il setaccio). Infine due parole intraducibili. Quando il minestrone si attacca alla pentola prende o scotizzo (gusto di rifritto), mentre le stoviglie mal lavate sanno di refrescumme (lezzo, puzza). Tegnimmo viva a nòstra lengoa antiga: parlemmo zeneize! Franco Bampi Le regole di lettura sono reperibili nel Gazzettino di aprile 2006 e all’indirizzo Internet http://www.francobampi.it/zena/mi_chi/060429gs.htm. |