Monete Moneta si dice monæa, ma anche palànca, dinâ (denaro) e södo (soldo). Prima della guerra c’erano ancora i cìtti (centesimi), oggi ritornati con l’euro, e sebbene esista la parola lîa (lira), i genovesi preferivano chiamarla frànco: un frànco era composto di çénto cìtti. Cominciando dai tagli più piccoli si aveva la palànca che valeva çìnque cìtti, quindi doê palànche erano dêxe cìtti. Poi c’era la mêza mótta che valeva vìnti cìtti e la mótta che ne valeva quarànta. A crescere si aveva il cavorìn (cavurrino, da Cavour), che valeva doî frànchi (due lire), seguito dallo scûo (scudo) del valore di çinque frànchi e dai doî scûi che, ovviamente, ne valevano dieci. Gli spiccioli si dicono menuàggia e i rotti della moneta, quello che non arriva a fare un intero, si chiamano biscæso o, più comunemente, bischèrso. Nel dopo guerra alcuni nomi sono sopravvissuti per denotare le monete della Repubblica italiana; in particolare frànco è rimasto per indicare la lîa, parola usata raramente, e mandato in pensione con l’euro. Si diceva ancora un scûo per le cinque lire e doî scûi per le dieci lire. Gli altri erano ovvi: çinquanta frànchi, çento frànchi, mìlle frànchi; poi çinquemìlla frànchi e, per i puristi, anche çinque miâ lîe e via a crescere. Per i ragazzi, che parlavano italiano, ci fu l’abitudine di chiamare le cento lire “fetta” (cinque fette cioè cinquecento lire) e le mille lire “sacco” (dieci sacchi erano diecimila lire), nomi che potevano variare da quartiere a quartiere. Sta monæa a dêv’êse fâsa: a no ciòcca bén Franco Bampi Tutte le regole di lettura sono esposte nel libretto Grafîa ofiçiâ, il primo della serie Bolezùmme, edito dalla Ses nel febbraio 2009. |