Paròlle de Zena |
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Acqua e tubature
Il fiume, in genovese, si dice sciùmme. Quando
il regime delle acque non è costante si usa la parola torénte. Da
sciùmme, in genovese come in italiano, seguono le parole scciumæa
e sciumæa che entrambe significano indifferentemente fiumana o fiumara,
termini coi quali si denota un corso d’acqua dal letto largo e ciottoloso, impetuoso
d’inverno e quasi secco d’estate. Per questo motivo il quartiere alla foce del
Ponçéivia (Polcevera) si chiama scciùmæa. Se invece il corso
d’acqua è di modeste dimensioni, ovvero se è un ruscello o un rigagnolo, allora si chiama
riâ o riàn, da cui il diminutivo rianétto o,
come dice Firpo, rianéllo. La vivagna è la vena d’acqua che
scaturisce dalla terra; con la parola bêo si denota il gorello che è il
canale artificiale per irrigare i campi, mentre la parola ciûza indica la
gora del mulino, quel canale che porta acqua alla ruota. In generale o canâ
è il canale dove può scorrere l’acqua, ma a canâ è la tubatura per portare
e distribuire nelle case l’acqua del condûto (acquedotto). La canâ
do téito o grondànn-a è la grondaia, quel canale atto a ricevere
l’acqua che scola dalla grónda; il pluviale è detto a canâ riónda
oppure a condûta da canâ. Un getto d’acqua intenso è detto róggio,
mentre se è appena un filino si dice piscioêlo. L’acqua può essere raccolta
nel bolàcco (secchio cilindrico), ma più propriamente nel ruxentâ
(secchio); il recipiente per tiâ sciù (attingere) l’acqua dal pósso
(pozzo) è detto séggia (secchia).
Ma alôa l'é inùtile ch'anæ pe canæ!
Marzari: Giöxe o latonê.
Franco Bampi
Tutte le regole di lettura sono esposte nel libretto Grafîa ofiçiâ,
il primo della serie Bolezùmme, edito dalla Ses nel febbraio 2009. |