Estate Ormai si tende a dire estæ (estate), ma in genovese meglio sarebbe dire stæ (in italiano antico: state). E de stæ (d’estate) si sta a disagio quando gh’é sófoco (c’è afa) ovvero quando c’è macàia (tempo umido): allora non ci resta altro che aspettare la sciughêa (tempo asciutto). Uno dei rimedi estivi è allora quello di andare alla mænn-a (marina, spiaggia), termine che oggi si usa poco preferendo dire bàgni oppure spiâgia, dimenticando completamente l’antica parola ciàzza (spiaggia) detta con la “z” dolce perché, attenzione, la ciàssa è la piazza! Un tempo il mâ (mare) era poco inquinato, ma potevi trovare la möca (ralla), un untume nero causato dalla pulizia dei serbatoi delle navi in rada. Ciò non impediva alle patélle di attaccarsi agli schéuggi (scogli) e a noi di pungerci con un zìn (riccio di mare). Non di rado si incontravano delle grìtte (granchi piccoli) e talvolta dei fòuli (granchi grossi e “pelosi”). Le grìtte si usavano come lésca (esca) per prendere i pórpi (polpi), azione questa che si dice porpezâ (andar per polpi), ma che Marzari, e non solo lui, ha sempre usato maliziosamente per “palpeggiare”. Progenitore dell’indispensabile frigorìfero era, per chi poteva permettersela, la giasêa (ghiacciaia), ma ancor prima, per proteggere il cibo dagli insetti, si usava la moschêa (moschiera) e il læte (latte) si conservava al fresco della notte in sciâ ciàppa do barcón (sul davanzale). L’aiétta (arietta) ha sempre fatto piacere al punto da avere più parole: bîxa (filo d’aria), brîxa ( brezza) e æxîa (brezza mattutina). E quando fuori no gh’é ’na bâva d’âia, viva i condizionatori! Âia de fisûa, âia de seportûa Franco Bampi Tutte le regole di lettura sono esposte nel libretto Grafîa ofiçiâ, il primo della serie Bolezùmme, edito dalla Ses nel febbraio 2009. |