Parole dimenticate Dâ i aregòrdi significa dare un avvertimento, una lezione, un avviso. Diamo allora qualche aregòrdo per non scordare qualche parola antica, magari perché riferita a cose che non si usano più. Impossibile ormai è trovare l’amolìtta (arrotino), figura cara a tutti quelli che la conobbero. Ma anche il repesìn (rigattiere) è praticamente scomparso. Noi diciamo freciàmme l’insieme di piccoli pezzetti di ferro e freciamìn colui che andava in giro a raccoglierli per venderli. Ci sono ancora (e spesso sono caistriôxi, perché vendono a caro prezzo) il bancâ (falegname) e il latonê o stagnìn (idraulico), ma il bestétto (menagramo) e il miödìn (persona subdola) ci saranno sempre! A questo proposito Dolcino ricorda che Miödìnn-a è il nome dato dal popolo a Salomé, responsabile della morte del Battista. Dagli orti sulle rive del Bisagno deriviamo la parola bezagnìn (erbivendolo) e ci scordiamo della regatónn-a (venditrice di frutta). Un tempo il pedón non era il pedone, ma un contadino che portava a piedi e a braccia dalla campagna alla città un po’ della propria produzione per venderla. Le cose di poco conto si dicono fociâre, i grilli per la testa sono gli scrìpixi, la parola mócco denota un tipo mogio, ma anche il fumacchio: legno che fa fumo senza bruciare. E se un bambino o no peu scrichî vuol dire che stenta nella crescita. Sta zitto si dice no silâ, non vergognarti si traduce no genâte. Ma parlémmo zenéize non lo traduco. Mi són ’na pìtima rispetâ / e no anâ’n gîo a contâ / che quànd’a vìtima-a l’é ’n strasê / ghe dò do mæ (F. De André) Franco Bampi Tutte le regole di lettura sono esposte nel libretto Grafîa ofiçiâ, il primo della serie Bolezùmme, edito dalla Ses nel febbraio 2009. |